La cucina napoletana, Editore Ulrico Hoepli
Come non esisterebbe la lingua italiana senza la Toscana, così non ci sarebbe la cucina italiana senza Napoli: pizza, pasta, caffè, mozzarella, limoncello sono solo alcuni dei simboli di una cucina eterna e radicata nelle abitudini della gente.
Il cibo per i napoletani è talmente importante che non hanno un sostantivo per chiamarlo: usano il verbo mangiare che diventa sostantivo ‘o magnà, ossia il mangiare. C’è la tradizione di terra perché prima i napoletani erano soprannominati “mangiafoglie” grazie alla fertilità del suolo vulcanico che conferisce un sapore unico alle verdure, agli ortaggi e alla frutta, poi la cucina marinara, e ancora lo street food popolare con la pizza, le frittatine di maccheroni, le palle di riso, la pasticceria da passeggio (sfogliatelle, babà, zeppole), la cucina nobiliare portata dai monzù tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la cucina borghese del Novecento italiano, quella moderna dei cuochi stellati. Per il napoletano ‘o magnà costituisce il centro della giornata: che cosa sarebbe una domenica senza il Napoli e il ragù?
La recensione di Marco Lombardi
“Luciano ha colmato il gap tra Nord e Sud… a difesa di quell’artigianato alimentare che insieme ci siamo impegnati a difendere”, dice Alfonso Iaccarino – uno dei capisaldi della gastronomia italiana – nella prefazione all’ultimo libro di Luciano Pignataro, “La cucina napoletana”, edito da Ulrico Hoepli Milano. “Napoli è un mondo fatto di mille mondi, come dimostra la sua gastronomia… una sorta di dolce millefoglie”, dice invece l’autore nell’introduzione a un saggio che riesce a distinguersi proprio grazie a questo approccio antropologico, rilevato dallo stesso Iaccarino. “Come non esisterebbe la lingua italiana senza la Toscana, così non ci sarebbe la cucina italiana senza Napoli: pizza, pasta, caffè, mozzarella e limoncello”, chiosa Pignataro.Anche il libro si snoda secondo la logica del millefoglie in quanto opera a strati che può essere assaporata senza il vincolo della consequenzialità dei capitoli, bensì scegliendo di volta in volta l’argomento preferito. Questo approccio elastico – proprio una delle principali caratteristiche dei napoletani, dice Pignataro – in effetti è declinato all’interno di uno schema che parte dai luoghi, cioè da un elenco di alcuni ristoranti (“Tutti vi diranno che il migliore è quello di casa, eppure questi luoghi d’incontro sono entrati nella memoria collettiva, perciò vale la pena conoscerli”), per poi andare ai piatti che, prima d’essere raccontati – e proposti, con tanto di ricette – sono filologicamente anticipati attraverso un racconto minuzioso delle materie prime che concorrono a crearli. Prima ancora però– a mo’ di cornice – Pignataro fa una storia della cucina napoletana: dopo averne riconosciuto le contaminazioni socio-culturali (nobiliari, popolari, borghesi e pure futuriste), e quindi la sua insita “democraticità”, quando si mette a parlare di pizza diventa ironicamente assolutista: “La pizza non deve essere panosa, perché altrimenti è una focaccia”, dice lanciando un’ironica stoccata ai molti pizzaioli “stranieri” – dal Veneto al Lazio – che negli ultimi anni si sono lanciati nel proporre nuove formule. Le pizze, infatti, sarebbero declinabili in sei “stili contemporanei”, solo e soltanto partenopei: la pizza a ruota di carro, la pizza dei signori, le pizze di quartiere, la nuova pizza napoletana, la pizze ad alta idratazione e lo stile Rossopomodoro.
È molto interessante la parte in cui Pignataro parla dei singoli prodotti della cucina napoletana, perché lo fa non tanto “da giornalista” (descrivendone le origini, storiche e lessicali), quanto da persona ghiotta che si perde tra profumi, sapori e consistenze: è così che si snodano le molte schede non solo su paste e mozzarelle, soprattutto su pomodori, carciofi, friarelli, papacelle, fagioli, cipolle, mele e limoni, oltre alle numerose qualità di uva (“…la sola Campania ha una varietà superiore alla Francia”). È a partire da qui che risulta evidente quello che dirà poi, parlando di piatti: “La prima caratteristica della cucina napoletana è data dalla predominanza assoluta degli ortaggi e della frutta” che, insieme ai legumi, risultano “…dei trucchi per poter fare a meno della carne, o comunque per non desiderarne ancora”. Se da questo punto di vista la cucina napoletana appare una “cucina della necessità” che sa fare i conti con le effettive disponibilità, tutto cambia quando parliamo di dolci: a differenza di quasi tutte le altre pasticcerie regionali che “… hanno origine nella ruralità, ossia in pani che diventano dolci la domenica (panettone, panforte e pandoro)… per il napoletano il fine pasto deve essere opulento” e quindi consta di dolci complessi, di non sempre facile realizzazione casalinga.
Il Messaggero, 25 ottobre
La recensione di Santa di Salvo
«Pippiare» è voce onomatopeica che indica il momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragù napoletano. Succede quando dal fondo della pentola affiorano in superficie le bolle d’aria, che si rompono riproducendo il suono di chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Per far «pippiare» il ragù, amici miei, bisogna tenere la fiamma molto bassa e non chiudere completamente il coperchio, che va appoggiato su un lato mentre l’altro deve giacersi comodamente sul cucchiaio di legno posto di traverso, per creare la piccola circolazione d’aria che impedisce alla salsa di precipitare nel bollore, cosa che finirebbe per rovinare tutto il lavoro. Mi soffermo sui dettagli – e non sono certo tutti qui – per farvi capire quanto siano importanti nel raccontare il lungo ed estenuante rituale, con tanto di rifiniture finali, che partorisce il vero «rraù» e non una qualunque «carne c’’a pummarola» come quella dei versi di Eduardo De Filippo.
L’ha messa in controcopertina, l’autore, la famosa poesia. Tanto per chiarire che bisogna ripartire da qui per raccontare «La cucina napoletana». Luciano Pignataro, giornalista che sa raccontare di vino, cibo e agricoltura sul Mattino e sul suo sito personale, da decenni appassionato ricercatore, autore di libri e collaboratore di Guide, un giorno è impazzito e ha deciso di confrontarsi con i giganti che hanno scritto della nostra gastronomia, ripercorrendo questo viaggio dell’anima attraverso i segreti del nostro cibo quotidiano. Quello che per noi, lazzari mangiafoglie e agili arrampicatori di alberi della cuccagna, è talmente importante che non riusciamo a coniare un sostantivo per definirlo. Lo chiamiamo con un verbo, “’o magnà”, e lo mettiamo quasi sempre al centro della nostra giornata. Tanto è vero che ancora oggi a Napoli ci sono una sessantina di trattorie familiari con più di mezzo secolo di vita e 1500 pizzerie di cui molte nate tra Otto e primo Novecento. La follia è stata condivisa da un editore importante ed ecco a voi “La cucina napoletana” (Hoepli, 248 pagine, euro 29,90). Con foto e incisioni d’epoca e protagonisti di oggi immortalati da Sergio Siano, vale a dire dalla Tavola Strozzi a Nennella venditrice di taralli a Nazario Sauro che mostra la sua foto da bambina.
Ad amare questo libro saranno in tanti, ma per accedere a questo sentimento occorre immergersi con cuore infantile nello spirito dei luoghi, perché Napoli – scusate la banalità – è davvero un mondo a parte fatto di mille mondi, e lo dimostra proprio la nostra cucina, fatta di terra vulcanica e di profumi di mare, di street food antico di secoli, di cucina nobiliare importata dalla Francia dai monzù e di piatti popolarissimi, di dolci conventuali e di chef stellati. Dare conto di questa cosmologia di sapori non è facile, ma la ricetta di Pignataro risulta efficace e originale per la sua trasversalità. Senza prefazioni ponderose, senza supponenze, senza approcci didascalici, questo libro piacevolissimo ci racconta con sintesi felice la storia di una cucina multiforme grazie a cui i poveri hanno vinto sui ricchi (questione antropologica di rilievo, mi pare). Dalle origini ai nostri giorni, fino a quell’inimitabile stile campano esploso nella ristorazione d’autore partita dagli anni Novanta dalla penisola sorrentina con Alfonso Iaccarino (che ha scritto la prefazione del libro) e consolidatasi nella riscoperta del nostro petrolio: la pasta, il pomodoro, gli ortaggi, i pesci poveri, l’olio d’oliva. E poi nello strepitoso successo dei nostri chef, capaci di rivisitare la tradizione con tecniche nuove e con grande padronanza delle materie prime d’eccellenza prodotte nel nostro territorio.
Un ampio capitolo è dedicato alla pizza e ai suoi diversi stili, un altro ai ristoranti storici, e poi ancora ci sono capitoli dedicati ai prodotti, dai formaggi alla pasta di Gragnano, e naturalmente un’ampia sezione intitolata al vino. Due terzi del libro, il vero cuore dell’opera, sono un originalissimo ricettario ragionato. Non un elenco qualunque, perché la scelta è stata fatta con cura per definire una precisa identità gastronomica della nostra città. Tra le mille e più ricette possibili, l’autore ha selezionate quelle che ha ritenuto essenziali, spesso con qualche versione in più, aggiungendo alcune della provincia entrate nell’empireo comune (spaghetti con colatura di alici, linguine alla Nerano) e ad alcuni prodotti oggi centrali come il baccalà, il pesce azzurro, il polpo. Originali i contributi generosamente offerti da chef e altri addetti ai lavori. Dalla genovese di tonno di Pasquale Torrente alla zeppola con la genovese di Paolo Gramaglia, dalla celebre pasta mista con crostacei e pesci di scoglio di Gennarino Esposito ai totani e patate di Mimmo De Gregorio dello Stuzzichino, troverete nel libro una golosa miniera di spunti possibili. E i dolci magnifici della tradizione ci sono tutti, anche quelli di Natale. Panettone compreso, perché oggi è questo il paradosso più sorprendente dell’arte bianca italiana. I migliori panettoni si fanno in Campania, grazie alla qualità delle nostre materie prime e alla competenza dei nostri maestri pasticcieri che hanno prodigiosamente affinato l’arte della lievitazione.
Il Mattino, del 20 novembre