Wine Economy come la Net Economy?
Come regalo di fine anno ai tanti amici che ci hanno seguito con crescente interesse in questi mesi, ripropongo il mio editoriale di novembre pubblicato dal sito Winereport.it diretto dall’amico Franco Ziliani. La crisi, la contingenza nazionale e internazionale, ci devono spingere ad un nuovo rapporto tra critica e produzione senza mai dimenticare l’agricoltura come punto di riferimento centrale: del resto il vino come aspetto puramente edonistico non ci ha mai interessato. Ecco dunque un articolo che spero offra spunti di riflessione a tutti.
Il boom vissuto questi anni è stato corroborante e positivo, ha segnato un cambio di mentalità tra chi vive in città e una voglia nuova di produrre in campagna, in un certo senso consumo e produzione si sono rivalutati a vicenda con ottimi risultati per lo stato di salute dell’agricoltura italiana in crisi di identità da almeno tre decenni. A ben vedere si è rovesciato il senso comune dell’approccio verso il cibo: dagli anni ’60 agli ’80 il prodotto industriale era sempre più buono, sicuro, moderno, qualificante di quanto potesse essere quello artigianale. Oggi è esattamente il contrario e questo ha consentito ai nostri produttori di impostare un linea per ricchi e medio ricchi consumatori quali noi italiani senz’altro siamo rispetto al resto del mondo. Sicchè oggi la grande industria deve mascherarsi di tipico quando fa pubblicità, così le grandi aziende vitivinicole hanno dovuto riconvertire completamente la loro immagine.La wine economy diventerà carta straccia ?Come sempre accade nei momenti di boom di un fenomeno, sul carro salgono un po’ tutti. Senza andare per le lunghe io vedo molte similitudini tra la follia speculativa della New Economy di quattro anni fa e quanto avvenuto negli ultimi anni nel mondo vitivinicolo italiano. A pagare le net-azioni diventate carta straccia è stato il parco buoi dei risparmiatori. Ti ricordi di come i titoli di ogni società che avesse net e com nel nome schizzassero in alto senza aver alcun aggancio con le analisi economiche degli esperti e degli operatori? Come non paragonare l’irresistibile ascesa di queste società con i prezzi stratosferici di alcuni vini stellati, bicchierati e grappolati? E che dire della stessa ingenuità del mercato, al pari di quella del parco-buoi di Piazza Affari? Quanti ristoratori hanno intasato le loro cantine con vini costosi e senza storia di cui adesso sono rimasti mesti guardiani di stoccaggio? Quanti collezionisti sono rimasti beffati? Ma soprattutto quanta gente ha pagato 30 euro per vini che ne valevano quattro o cinque in base all’analisi dei costi? Del resto è la metafora della vita, senza i fessi i furbi non potrebbero esistere. La crescita di un settore economico vive anche di questo, ingenui e pescecani, investimenti fortunati e patrimoni dissolti, storie inventate e scommesse perdute, tipico di un mercato immaturo qual era appunto quello italiano. Sgonfiata la bolla speculativa, tutto tornerà normale e resteranno quei vini i cui produttori sono stati capaci di mantenere la barra dritta senza inseguire le mode (quanti bianchisti hanno piantato rosso in questi ultimi tre anni?). Sarà questo il primo passo di avvicinamento alla Francia. Insomma, come dire, anche le crisi sono salutari perché questo Show wine, un circo mediatico senza precedenti in agricoltura, non poteva certo durare in eterno senza implodere.Penne e bicchieriE vengo alla questione che ci riguarda. La prova dell’immaturità del mercato è tutta nella incredibile miscela di ruoli che abbiamo registrato in questi anni in Italia. C’è stata una confusione tra i mestieri di critico, di giornalista e di comunicatore. In un dalemiano paese normale il critico valuta il prodotto e l’azienda assegnando i punti, il giornalista la racconta con un linguaggio comprensibile, il comunicatore fa pubblicità nelle forme e nei modi ritenuti opportuni dal mercato. E invece? Invece la realtà ha mostrato l’emergere di una piena e totale confusione di ruolo, pochi hanno resistito ai facili guadagni tipici di un mercato popolato da soggetti che, al contrario dei tempi imposti dalla campagna, hanno avuto fretta di realizzare. Pochi hanno avuto il coraggio di caratterizzarsi esplicitamente come comunicatori, press agent, pochi ancora hanno continuato a fare semplicemente i giornalisti rinunciando alle consulenze, pochi infine hanno fatto i critici senza farsi influenzare dai carichi pubblicitari, giusto per citare il modo di pressione più elegante e sotto gli occhi di tutti. Sarebbe meschino e inutile elencare le altre forme studiate e inventate per far emergere alcuni prodotti, molte credo al limite dell’estorsione se non dell’illecito penale, anche perché darei valenza etica ad un ragionamento che desidero mantenere su un piano molto più concreto. Ripeto, senza i fessi i furbi non potrebbero fare soldi. Voglio un piano di ragionamento concreto nel senso che chi comunica in modo più sofisticato non va demonizzato, ma non può però essere egli stesso il critico e il giornalista, direttamente e indirettamente, del suo cliente e del vino che promuove. Questo è il punto di vista del consumatore, il quale può cadere talvolta nella trappola ma alla fine riesce sempre a vendicarsi snobbando come parvenue quelle bottiglie spuntate dal nulla e senza storia. Complessivamente le forme di comunicazione adottate negli ultimi anni hanno aiutato il mondo del vino italiano a farsi conoscere, ma il non aver lavorato ad una distinzione di ruoli è un errore che si sconta adesso che i nodi economici sono arrivati al pettine.Un tre bicchieri vale molto di più di una vittoria ad un concorso enologicoA ben pensarci, non è poi assolutamente strano, incredibile, paradossale che in Italia il concorso del Vinitaly, affidato ad Assonelogi, non abbia risonanza alcuna sui media mentre stelle, bicchieri e grappoli sì? Non è una metafora del nostro paese bizantino questo accendere i riflettori su vini premiati in base a criteri mai esplicitati e formalizzati anziché attendere gli esiti di un concorso dove tecnici laureati e diplomati giudicano i campioni senza conoscere etichette e produttori? Perché enotecari e ristoratori non fanno la corsa a comprare vini premiati in concorsi severi? Insomma non saremo forse nella Tangentopoli del vino, ma sicuramente il sistema appare molto malato e soprattutto inefficace, poco chiaro per il consumatore.Il vino entra nel salotto di Vespa ed il sistema inizia la sua parola discendenteEd è questo il punto vero, autentico, su cui tutti gli operatori del settore dovrebbero ragionare se invece di godersi i soldi fatti hanno ancora in animo di stare sulla piazza: il pubblico del vino in Italia, anche grazie ai numerosi corsi di alfabetizzazione svolti in tutta la Penisola, è un po’ come quello sportivo, cioé non solo è dentro l’argomento ma conosce anche i meccanismi dell’informazione, e non a caso qui le firme hanno ancora il loro peso, questi pubblici si fidano di chi scrive più che della testata o dello strumento. Non è un caso che un po’ ovunque stanno sorgendo associazioni spontanee di professionisti, ma anche di giovani, che organizzano la loro passione contattando direttamente le aziende, organizzando tour e degustazioni. Forse è ancora un fenomeno di nicchia, ma è questa la fascia più acculturata e con maggiore propensione a spendere, ed è, arrivo al punto, proprio a questa fascia di tendenza che la comunicazione italiana così come si è articolata negli ultimi anni tra bassezze, astuzie, ricatti, oltre che di grandi competenze e professionalità, non è più in grado di parlare e di influenzare i consumi. Paradossalmente quando il vino è entrato nel salotto di Vespa il sistema ha iniziato a celebrare la sua fine. La banalizzazione ha svelato a tutti il re nudo.Un grande rosso non si acquista perché sponsorizza la Nazionale di calcio !Come mai? Semplice, la comunicazione riflette il prodotto, ne è espressione sintetica e compiuta. Il vino in brick può andare come spot durante una puntata del Grande Fratello, ma il vino inteso come punta dell’agroalimentare di una nazione non può essere banalizzato, un grande rosso non viene acquistato perché sponsor della Nazionale. Come la risposta alla crisi è stata la nascita di vini complessi anziché la diffusione di quelli di pronta beva secondo quanto avevano predicato gli strateghi del marketing affascinato dalla campagna arboriana sul consumo della birra, così la nuova frontiera della comunicazione è nella distinzione dei ruoli tra critico, giornalista e pubblicitario/comunicatore. Di guisa che, scriverebbe un magistrato, il consumatore/lettore abbia la percezione delle veridicità del messaggio avendo ben precisa la fonte. Già, ma quale consumatore? Anche qui dobbiamo intenderci: c’è una fascia di consumo per cui il vino ha ancora un valore alimentare, e si accontenta delle utilitarie costruite correttamente. C’è poi il mercato delle grandi occasioni con le bottiglie-evento in cui rientrano quelli meno esperti e infine, questo è il segmento in cui si posiziona la maggior parte del consumo consapevole e acculturato, coloro che cercano i vini del territorio venduti a costi corretti. Sono loro la massa nuova, emergente, del vino inteso come prodotto del made in Italy.WineReport come giornale anti – sistemaIn questo contesto mediatico così come si è sedimentato tra compiacimenti e danaro a pioggia, il sito WineReport di Franco Ziliani ha rappresentato un momento di rottura, ha funzionato come anti-sistema. Ma, questo poi è il punto, nessuno è riuscito a costringerloi a recitare la parte di anti-sistema nell’ambito di un sostanziale reciproco coprirsi come in fondo è sempre stato nel gioco politico italiano dal Dopoguerra ad oggi. C’è chi ha accettato di fare il giullare di corte, ma si è bruciato la credibilità tra il pubblico acculturato. Quando il piano di controllo fallisce colui che non è riconducibile diventa il folle della nave di Foucault, la persona da espellere dal contesto mediatico e costringere al silenzio: il ché sarebbe anche successo se, magnifica sorpresa, non esistesse internet. Questa è la grande novità degli ultimi anni che Ziliani prima di altri ha capito. La libertà non è un principio astratto, ma un modo di vivere e di leggere il mondo. Un valore a cui la mia generazione ha sempre prestato molta attenzione, non si può fare sempre quel che piace, ma bisogna sempre dire quel che si pensa, soprattutto quando si hanno ruoli di servizio pubblico quale il mestiere di giornalista e di critico dovrebbero essere. Essere libero è il segreto con cui vivere bene il proprio lavoro per fare le cose come si deve. Adesso, con l’età, oltre al vizio della libertà abbiamo imparato a coltivare con passione anche quello che il grande magistrato Gherardo Colombo ha definito il vizio della memoria. Amiamo ricordare, come degustare dopo anni i vini culto e commentarli, per esempio. Quei vini strombazzati aperti dopo qualche anno di ritardo per vedere, come cantava Jannacci, di nascosto l’effetto che fa.Il vero punto di scontro non è tra i sostenitori della barrique e quelli dei grandi fusti di rovere, tra Merlot e vitigni autoctoni, tra bianchi e rossi. La partita è tra chi vuole difendere l’autonomia del mestiere di giornalista e chi invece non può accettarla perché guadagna quando i ruoli sono confusi. Per questo in Italia non serve allora un solo Franco Tiratore, ma tanti bravi cecchini appostati ovunque in ogni doc, in ogni commissione, in ogni giornale.