Vino sputtanato in Tv: il problema non è Report ma l’Italia del Mulino Bianco
Siamo sicuri, ma proprio sicuri, che il sistema vino abbia come nemico Report? Ho aspettato la seconda trasmissione prima di fare alcune riflessioni perchè certe cose non possono essere affrontate d’istinto, ma con un po’ di razionalità.
Prendersela con giornalisti perchè la narrazione non corrisponde ai nostri desiderata è uno sport nazionale che vale per tutte le categorie (in primiis i politici) ma alzi la mano chi non ha sentito dire in giro nel mondo del vino, da produttori, sommelier e appassionati, esattamente le stesse cose che abbiamo ascoltato in queste due puntate.
Negli ultimi vent’anni siamo cresciuti a pane e anfora, pane e lieviti indigeni, pane e “come faceva il nonno”, pane e legno grande, pane e solo acciaio come da tradizione (?), ma in realtà tutto ciò non è altro che la rivincita nella comunicazione degli ex conferitori divenuti produttori nei confronti dei grandi vinificatori che hanno fatto il bello e il cattivo tempo per due secoli, almeno sino alla catastrofe del metanolo e alla fine della mezzadria.
La trasmissione non ha fatto altro che raccogliere questo vento e portarlo al grande pubblico attraverso quello che resta lo strumento più potente ancora oggi e nonostante tutto, la televisione. Sono stucchevoli e senza senso le osservazioni secondo le quali la Tv, e il giornalismo, dovebbe difendere e non attaccare una punta di diamante del nostro Made in Italy. Questo compito spetta alle istituzioni, ai consorzi, alle associazioni professionali. Il giornalismo deve raccontare, non ha altro scopo, almeno in Occidente. Certo, la televisione da sempre banalizza gli argomenti, deve fare ascolti, ha le sue regole, come i giornali e gli influencer del resto. Perchè meravigliarsi? Avete dimenticato la famosa copertina dell’Espresso su Velenitaly del 2008?
Ci sono inesattezze? Chi non ne fa nel proprio lavoro? Chi non fa non sbaglia. Per definizione (un po’ cattiva ma efficace) il giornalismo è quel mestiere in cui chi non sa nulla si occupa di tutto.
Proprio come noi tutti italiani!
Il tema vero, semmai, è porsi il problema di come mai certi messaggi antiscientifici siano passati nel senso comune come valori positivi e come si potrebbe operare per aggiustare la rotta sul piano del marketing e della comunicazione. Ma qui arriva un altra domanda: non sono anche i grandi produttori afflitti dalla sindrome del Mulino Bianco, ossia di apparire a tutti i costi quello che non sono per vendere comunque e meglio mostrando subalternità? Prima le barrique erano esibite da tutti con orgoglio, del resto il suo fautore principale in Italia è stato Veronelli, quando arrivavano i giornalisti in visita negli anni ’90. Ora sono nascoste in doppi fondi alla James Bond e ciascuno ha la sua bella anforetta da esibire.
Il mondo al contrario verrebbe da dire.
Del resto queste divisioni le abbiamo viste nel mondo della pizza (lievito madre versus lievito di birra), nella gastronomia (cucina d’autore contro cucina di tradizione), giusto per restare nella sfera dell’agroalimentare italiano.
Alla radice di tutto non c’è l’etica intesa come buoni contro cattivi, ma solo banali interessi commerciali contrapposti che se la giocano con colpi bassi e senza risparmio.
Non entro nel merito dei temi tecnici, anche perchè non sarò certo io a poter sciogliere venti anni di dibattiti e zuffe. Dico solo che mi è molto piaciuto, per la parte scientifica, il pezzo di Michele Antonio Fino oggi sul Gambero e sulla questione dei lieviti non posso che rimandare a Luigi Moio, presidente dell’Oiv che stanotte è stato un best click :-)
Fondamentalmente il vero tema, tutto italiano, è il rapporto tra grande e piccolo. Nonostante la prosopopea fascista del Ventennio e la retorica su Roma, noi in realtà siamo figli dell’Italia dei Comuni, gran parte degli italiani vive in piccole città e anche le nostre grandi metropoli in fondo sono un mosaico di paesoni chiamati quartieri, a parte Milano naturalmente. Istintivamente respingiamo ciò che è grande perchè il grande ci ha sempre invaso grazie alle nostre divisioni e il nostro principale nemico sono i vicini. Con caratteri più o meno accentuati lungo i nostri mille e passa chilometri, siamo tutti così. Non a caso sono le multinazionali a fare shopping del Made in Italy di moda e food e non viceversa. E non a caso uno bello tosto come Oscar Farinetti ha dovuto ammettere di essersi sbagliato su Fico.
Negli anni ’60 abbiamo attraversato la fase in cui tutto ciò che era artigianato era da eliminare, non affidabile, mentre l’industria era garanzia, modello. Abbiamo iniziato a mangiare i marchi e non i prodotti. Così anche in parte nei tormentati anni ’70, il contraccolpo sociale al feroce processo di inurbamento che ha reso residuale la società rurale.
Dal metanolo in poi il senso comune nelle elite culturali si è rovesciato grazie a Slow Food, Gambero Rosso, Seminario Veronelli (tutti nati nel 1986, anno della crisi del metanolo) e da quel momento l’industria è diventata Satana mentre tutto ciò che è artigiano è sacrosanto e buono. Si è creato un contro mercato che ha contrapposto però non prodotti a marchi, ma marchi commerciali del piccolo a marchi commerciali del grande. A parte l’autoconsumo, il cibo è sempre merce e va venduto. Vale per tutti.
Dagli anni ’90 in poi il vero tema è che non si è riusciti a fare una sintesi fra i due poli ed è iniziata la metafora della Torre di Babele, dalle tribù del cibo analizzate da Marino Niola alle tribù del vino.
Il problema è che ciascuna tribù invece di farsi i cazzi propri e muoversi guardando a se stessa, pensa che lo spazio si possa avere solo togliendolo agli altri come in una carrozza della metro. Per cui da un lato abbiamo i vini che puzzano, dall’altro i vini che avvelenano con veri e propri parossismi privi di un reale significato, come la questione dei lieviti o degli stessi solfiti.
Di fronte a questo scenario Report ci ha azzuppato alla grande, come si dice a Napoli, e sarebbe stato strano il suo silenzio.
Sarebbe il caso di ricostruire una narrazione equilibrata, capire che i buoni e i cattivi non si distinguono per numero di bottiglie, ma per il prodotto che propongono. Che l’anfora, le barrique, i tonneaux, l’acciaio sono dei mezzi e non il fine, come i sistemi di potatura e tutto il resto. E che preferire un vino territoriale ad uno standard è questione di gusto e di mercato perchè non hanno fra loro gerarchia etica.
Partendo da un assunto elementare, ricordato dal presidente Assoenologi Riccardo Cotarella proprio nella trasmissione: l’uva può essere mangiata o diventare aceto.
Tutto il resto lo fa l’uomo.
19 Commenti
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Comunque dietro al vino o sulle spalle del vino ci campano molte categorie, comprese quelle dei giornalisti. Quindi speriamo che ognuno faccia bene il proprio lavoro….io da enologo mi sento di poter dire che mi impegno a produrre con scienza e coscienza…. magari non tutti lo faranno….ma i giornalisti, come si muovono?..anche loro cercano solo il risultato, come alcune cantine, non pensando alla qualità del proprio lavoro, anzi, creando danno ad altre categorie?.. meditiamo….
Il gran capo in nostalgica gita ma sempre con la testa sulle spalle e…..sempre al lavoro.Provo a fare una sintesi.Il grande Gaia gira il mondo col suo verbo:i grandi tracciano autostrade i piccoli che possono permettersi di sperimentare piccole vie ma senza la strada maestra non si va da nessuna parte.In parole semplici voglio dire che invece di sconfinare l’uno nell’altro(la grande industria con la sindrome del Mulino Bianco e i piccoli a demonizzare i grandi solo per difendere prodotti a volte opinabili)i due mondi dovrebbero collaborare e sopratutto ognuno a fare al meglio il propio lavoro.Spazio purtroppo ce ne sarà sempre meno (dati matematici e previsioni non sono entusiasmanti) ma la soluzione non è certo rubarselo a vicenda ma puntando decisi alla qualità e ad una comunicazione più reale e meno “poetica”FRANCESCO
Riflessioni condivisibili fino a un certo punto. Che l’inchiesta sia sta viziata da un pregiudizio è innegabile. Perché l’intervista a professionisti si è limitata al solo presidente Cottarella? Perché, oltre a cantieri e cosiddetti esperti di vino non hanno chiesto il parere di professori e ricercatori universitari che hanno approfondito scientificamente i processi complessi che sovrintendono alla vinificazione? Ci sono molte falle che non giustificano un’inchiesta di questo tipo. La pubblicità se lo può permettere un giornalista serio e corretto che lavora nel servizio pubblico no.
I volantini dei supermercati offro centinaia di vini al 50% di sconto.Non li compero più,sono tutti uguali ,le etichette sono inutili e soprattutto sono diventate bevande a base di solfiti. Mi ricordo quando il patron di Eataly aveva chiesto ai produttori di dimezzare i solfiti.Non è successo niente , anzi, molti vini di lusso , cioè con prezzi superiori a 15 eu mi sembra che ne hanno ancora di più e hanno tutti lo stesso gusto.
Non sono un esperto ma, la perplessità avviene quando in piccole superfici impegnate come possa uscire cosi tanto vino del luogo imbottigliato con etichettata locale.
Sarà mica lo stessoo problema dello Champagne?
Concordo pienamente con la sintesi che i buoni e i cattivi non si distinguono per numero di bottiglie, ma per il prodotto che propongono. C’è da chiedersi perché, grandi o piccoli che siano, fanno prodotti di dubbia qualità? la risposta è il profitto facile. E perché il consumatore medio ( a volte anche quello al di sopra) non riesce a fare la distinzione tra prodotti buoni e cattivi? Perché il vino è un prodotto complesso, difficile da interpretare se non hai conoscenze profonde ( per tali intendendo sia nozioni che esperienza).
Il compito dei giornalisti seri è difficile perché ci vorrebbero divulgazioni che richiedono molte ore di approfondimento. Cosa che purtroppo spesso non hanno.
Fino a quando si rimane nell’ambito della legge il punto non e’ l’uso di alcune sostanze, peraltro noto da anni a tutti che abbiano un minimo di coscienza del mondo del vino, ma ci sono due problemi sostanziali:
1. per il grande pubblico e’ una cosa completamente nuova e scioccante;
2. anche per gli esperti del settore e’ molto difficile, se non impossibile, sapere quali sostanze sono state usate e con quale quantita’.
E’ chiaro che se compri un vino a 3 euro a bottiglia e capisci un pochino non ti puoi aspettare che non siano stati usati prodotti di sintesi, ma rimane il fatto che questa informazione non e’ reperibile da nessuna parte.
E’ altrettanto accettabile che per un vino di buona qualita’ siano stati necessari alcuni aggiustamenti. Io a dir il vero azzarderei che al aumentare della qualita’ e del prezzo gli aggiustamenti dovrebbero ridursi fino a scomparire, ma che siano pochi o molti nessuno lo sapra’ mai ne in termini di qualitita’ che di tipologia.
Non mi si venga a dire che questo vinificatori ed enologi si siano battuti per questa chiarezza in questi anni …
Report, con i suoi metodi discutibili quanto si vuole, fa venire alla luce proprio questi problemi, ma la risposta e’ report fa schifo e non da questo momento in poi diventiamo trasparenti.
Hai messo i trucioli? Me lo scrivi in etichetta! Hai messo gomma arabica o il ferrocianuro di potassio? Me lo scrivi e con tanto di dosi! etc. etc.
Si potrebbe obiettare che prossimamente sara’ tutto scritto. Uhm… Ni!
E gia’ perche’ e’ stato ottenuto che, a parte gli allergeni, tutto il resto sara’ presente in forma di …QR! Forse per rendere i dati meno leggibili? A pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende diceva un noto politico di qualche anno fa.
Se dovessero scrivere tutto servirebbe una etichetta pieghevole come un bugiardino, ma dovremmo sapere esporre tutto a qualsiasi costo non aiuta la comparazione tra prodotti nè il giudizio qualititativo.
Il vino deve piacere, in primis, mentre oggi lo si sta trasformando in un acquisto assurto a status symbol, non solo alimento ed elemento organolettico.
Oddio sapere se ha messo delle chip di legno al posto di usare le botti, se ha abbattuto i metalli del tuo vino con il fenocianuro di potassio etc. etc. per me aiuta la comparazione tra vini e il giudizio qualitativo.
Se poi e’ un problema di spazio, posto che per altri prodotti alimentari non e’ cosi e l’etichetta del vino e’ e tutto sommato rimane un unicum di NON chiarezza, non e’ gia’ questo un qualcosa che stride?
Il vino certo deve essere un piacere, ma tra il vino super natural e il miracolo di Cana ci sono infinite gradazioni.
Ecco un produttore dovrebbe avere il piacere di dare tutte le informazioni per dare al consumatore strumenti per capire dove si pone e come ha lavorato. Sarebbe sicuramente uno strumento sia per aumentare la qualita’ dei prodotti che la consapevolezza dei consumatori.
Per dire.
“Il mondo produttivo sta interpretando male l’uso del legno, che siano le barrique, o i trucioli. Il legno serve solo a passare un pizzico di acido gallico ai vini rossi per strutturarli meglio, e niente di più. Secondo l’enologia classica e seria chi impiega i trucioli commette un errore perché usandoli si fa una concia del vino. Allora tanto vale fare un’infusione di legno e aggiungerlo al vino per aromatizzarlo. L’uso dei trucioli non solo è una truffa ma anche un’interpretazione errata sul piano tecnico dell’enologia e dell’uso del legno”.
Giacomo Tachis, meglio conosciuto come l’enologo padre dei supertuscan non Report.
E ripeto io dico, ok fatelo oltretutto e’ lecito ma almeno scrivetelo.
Report è funzionale al racconto di un’Italia contadina, con l’orto per 4 foglie d’insalata e 3 pomodori colorati e profumati, mentre il pranzo si materializza dalla rosticceria o dal supermercato assieme a una bottiglia di vino “bio-qualcosa”, “solidale”, “sostenibile” qualsiasi cosa significhi.
Gli agricoltori e i trattori?
Non li vogliono perchè “puzzano di chimica” oltre a rovinare il panorama dal prato di casa.
Il commento è che l’acquirente medio non ha la capacità di riconoscere la qualità, solitamente si affida al prezzo che non affatto un parametro affidabile. Spero solo nell’onesta’ del produttore e che Dio ce la mandi buona.
A mio avviso in Italia (e nel mondo) si produce troppo vino. Le logiche del mercato e dell’economia, come in qualsiasi altro ambito, modellano negativamente il processo di produzione. Finché l’obiettivo sarà solo fare soldi non c’è speranza. Il comparto del vino come tanti altri è vittima del modello economico. Forse sarebbe il caso di imparare a farsi un esame di coscienza.
Stavolta Report ha un pò scazzato con i suoi esperti e consulenti…andate a sentirvi l’intervista integrale di Cottarella che ha avuto la grandiussima prontezza d’animo di registrare Report che intervistava lui : https://www.youtube.com/watch?v=f3zzDFUfT6U
Na viene fuori una preparazione un pò alla viva il parroco di Report.
Ho sempre guardato report e, sono giunta alla conclusione che, dicono tanto ma, proporzionalmente, anche NON DICONO TANTO. Mi spiego, riguardo al vino, ad esempio, non hanno detto che, i produttori sono controllati da una miriade di organismi istituzionali che nel servizio non sono stati neanche nominati: ICQRF con ufficio repressioni frodi, Nas, Sian, commissioni di degustazioni, ecc. La dicitura DOCG significa denominazione di origine controllata e garantita. Non è così facile e scontato adulterare (inserendo sostanze estranee al vino) il vino e, ciò, è fuori legge. La balla più grossa di Report è stata sui lieviti, se fosse così, io, in un posto qualsiasi dell’ Italia, posso produrre il vino che voglio , ad esempio mettendo i lieviti dell’ Amarone posso produrlo in Calabria o in Sicilia, NON SI PUÒ, È FUORI LEGGE, chiedete a chi si occupa di controllare e punire legalmente che, ciò, non accada. Infine una considerazione, ho letto in un commento che in etichetta dovrebbero mettere se è stata usata la gomma arabica, che è un prodotto di cui non ci preoccupiamo se la mangiamo nelle caramelle, o i solfiti che invece sono presenti naturalmente anche nell’ uvada tavola…Chiedo soltanto di farvi due domande, prima di prendere per oro colato, tutto ciò che Report dice e bevete vino buono, pagandolo il giusto e non 1 € a bottiglia, perché proprio i vini a basso costo potrebbero essere quelli di cui Report ha parlato.
Complimenti per l’articolo Luciano, da un agronomo non ortodosso (e anche con una laurea in economia). Non ho visto il servizio di Report, ma condivido pienamente l’invito ad uscire dai luoghi comuni e a coltivare uno spirito critico; nei confronti di questo e di altri settori dell’agro-alimentare. Altrimenti sarà comunque più difficile migliorare, e affrontare la tanta ignoranza che c’è in giro. Siamo il Paese delle Eccellenze, ma ancora non è stata introdotta un’ora di educazione alimentare
alla settimana nelle scuole…
Io direi di iniziare con il fare due distingui nel settore: chi produce vino . E chi produce bevande a base di vino. I primi a mio avviso sono una sparuta minoranza i secondi la stragrande maggioranza. Non dimentichiamoci che andiamo fieri di essere esportatori di vino gasato. Vino o bevanda a base di vino? Inoltre credere scioccamente che un prodotto seriale possa essere prodotto senza aggiustamenti in produzione è credere alle favole. Come fanno i yogurt alla frutta ad avere sempre lo stesso sapore, idem per i biscotti, per i salumi, le mozzarelle etc. etc. Se oggi fai un ciambellone a casa non è sicuramente come quello fatto due giorni prima. In questo paese “provincialotto” ( a proposito per me Milano è la metropoli più provinciale che esista) associamo la parola e le azioni di marketing alla nostra furbizia italica. Ma si sa la ” furbizia” ha gambe corte e respiro breve. Per cui non si è mai capito ( o si è capito fin troppo) cosa voglia dire Bio. Tutto oggi è Bio perfino certi meleti visti bordo autostrada. Il marketing funziona nel tempo quando a fianco di un prodotto reale e spesso non perfetto mettiamo una storia più o meno romanzata. Ci prendiamo per il culo quando ad una storia bella e affascinante mettiamo un prodotto come capita capita. Allora ci inventiamo termini surreali ” l’Olio è ad una latitudine impossibile ma il micro -clima del posto fa miracoli”. “Il rosso raggiunge i 16 gradi frutto dell’appassimento delle uve fatto dall’uomo con paziente lavoro…” ..ma l’appassimento lasciamolo fare al sole…costa pure meno oltre che viene decisamente meglio
Approfitto della gentilezza per qualche considerazione ulteriore prima di eclissarmi.
Ma, al netto di ragioni di natura politica che poco mi intessano, perche’ report ci fa arrabbiare?
Io credo che la ragione stia nel fatto che molto spesso la loro narrazione finisca col mischiare quelli che sono veri e propri illeciti ad azioni che considerano moralmente dubbie.
Sia ben chiaro, sono molto attenti a differenziare i due pian in fase di commento – credo che sia questo il motivo per cui fino ad ora non hanno perso una causa – ma la pratica direi che e’ abbastanza chiara.
Ma sono solo quelli di report a fare questo mix?
In verita’ no, lo facciamo tutti in base al ruolo che abbiamo.
Mi spiego, se da produttore mi basta non commettere nessun illecito, nel momento in cui mi trasformo in consumatore, vado al supermercato e compro i prodotti che io stesso produco, la sola assicurazione che nessuna legge e’ stata violata non mi basta, voglio che il prodotto sia di alta qualita’ e moralita’, magari pur costando uguale.
Ma non e’ solo al cambio di ruolo che si ha una diversa sensibilita’.
Come produttore tutte le deroghe “morali” che mi concedo ho piu’ di una ritrosia a concederle ad un mio concorrente commerciale spagnolo o francese o ancora peggio cinese.
In questo caso mi ricordo del made in italy, prodotti di eccellenza, invoco la protezione da pratiche scorrette e magari scendo per strada con il mio trattore…
E siamo arrivati al punto.
Senza tanti giri di parole possiamo dire che se grazie alla ricerca scientifica per proprieta’ organolettiche una cipolla di Tropea coltivata in Calabria e’ indistinguibile da una coltivata in Cina, da un punto di vista di costo e’ e sara’ sempre piu’ svantaggiata: non abbiamo il territorio, e avendo da tempo smesso di investire in ricerca, non abbiamo nemmeno le conoscenze per rimanere competitivi.
Unica cosa che possiamo fare e’ proprio brandizzare il fatto che e’ stata prodotta in Italia, che e’ un prodotto autoctono, come si produce, l’artigianalita’ etc etc. altrimenti possiamo chiudere baracca e burattini ed il nostro agricoltore calabrese sara’ il caso che metta su un B&B.
Detta fuori dai denti, il famoso e fortunato messaggio del mulino bianco non e’ il problema, ma di fatto una strada e una speranza di sopravvivenza.
Altrimenti? Beh, mentre saremo sempre piu’ invasi da prodotti esteri, per un po’ scendendo in piazza si potranno ottenere un po’ di agevolazioni statali, ma siccome quelle sono possibili grazie alle tasse (grazie ai fessi che ancora le pagano) ad un certo punto ci sara’ da scegliere se dare i soldi per le cipolle o per le TAC.
Ecco io credo che alla fine report dica questo e con i sui modi molto discutibili indichi la luna, poi se noi si vuole vedere il dito… beh c’e’ come dicevo sempre il B&B.