Raffaele Moccia, guardiano dei Campi Flegrei
di Gemma Russo
“Devi rimetterti in asse? Allora, attraversa la terra!”
Tante volte, guardandomi in viso, un vignaiolo flegreo mi ha detto queste semplici parole.
Tutte le volte, l’ho ascoltato attentamente mentre lo diceva, annuendo, sapendo che nell’attraversamento c’è sempre la soluzione.
Ѐ in silenzio che, con Raffaele Moccia, percorro il vigneto che s’arrampica irto fino alle mura borboniche, delimitanti il bosco degli Astroni.
Circa due anni fa, questa è stata l’ultima volta che sono stata qui su. Era in occasione del ventennale della doc Campi Flegrei.
Allora, le viti che corrono parallelamente lungo le mura non erano così.
A breve, verranno potate. Nel frattempo, il guyot diviene pentagramma, con tanto di pause e note che serene s’espandono nell’atmosfera rarefatta che avvolge la conca di Agnano, uno tra i vulcani di cui è costituita la caldera flegrea.
Sotto, tutto è fortemente antropizzato.
Ѐ un vignaiolo “resiliente” Raffaele Moccia, come tanti nei Campi Flegrei che, ogni giorno, con costanza, modellano la terra avendone rispetto.
Visitiamo i due terreni da poco aggiunti a quelli dell’azienda.
Entrambi non sono ancora ultimati, ma su questi “si è lasciata una prima impronta”, apiega Raffaele, “Già il fatto di poter camminare su dei terrazzamenti abbastanza definiti è un grande passo. Soprattutto per quanto riguarda il vigneto che si trova sul versante Pozzuoli. La terra era quasi inespugnabile tra rovi e infestanti ad alto fusto. La sorpresa è stata trovare i vigneti sotto le infestanti. Alcuni sfatti, altri quasi integri, ma l’impronta del terrazzamento del dopoguerra c’era ancora”.
Gli osservo le mani piene di lavoro che, gesticolanti, spiegano cosa significa allevare le viti in una terra vulcanica, posta tra il Vesuvio e i Campi Flegrei.
“Ѐ costanza, dalla talea alla produzione che in questa terra arriva solo dopo più di dieci anni”, dice fermo, “Tu stai lì ad educare la vite come vuoi, a seconda del progetto produttivo che hai in testa. Le dai da mangiare, perché in questi terreni occorre farlo. Così, è stato per la parte di vigna che confina con il bosco. Lì, i miei avi hanno sempre desistito. Non hanno mai neanche coltivato. Io ho insistito. Ho alimentato dall’alto con letame di coniglio di cui sono allevatore. Dopo 15 lunghi anni, oggi produce”.
Ѐ sul versante puteolano, appena ripulito dalle infestanti, a pochi metri in linea d’aria dalla fumarola di Pisciarelli, che mostra la stratificazione della propria terra.
Dalla sezione, nitidamente, si vede il primo strato superficiale, costituito da humus, poi “uno strato estremamente sabbioso, molto sciolto, fatto da lapillo e pietra pomice. Il terzo, quello che più interessa il vignaiuolo, è fatto da a’rena e’fuoco . Ѐ basalto che, in virtù delle azioni vulcaniche che si sono avute in questa terra, è triturato in modo fine ma più grossolano di quello posto in superfice. Quando la radice arriva in questo strato, esce’ o’ fuoco . Viene fuori un grande vino”.
Il maggior problema con cui il vignaiuolo potrebbe interfacciarsi?
“Il vignaiuolo stesso”, afferma sicuro Raffaele, “Sono consapevole d’aver scelto d’essere guardiano di un territorio in cui, a priori, c’è bisogno d’armarsi di buona volontà, di fare enormi sacrifici e lavorare. Amandolo. Se si è consapevoli di andare incontro ad una cosa del genere, non ci si può lamentare della scelta fatta. Dare la colpa alle difficoltà esterne, allora non ha senso. Lo sapevo. La scelta l’ho fatta io, sapendo cosa stavo scegliendo. L’ho accettato”.
Sulla strada di casa, con il “profumo” della Solfatara di Pozzuoli nelle narici, mi godo il tramonto da una delle terrazze più belle sulla terra in cui vivo.
Toglie in fiato. Ecco, questo fanno i Campi Flegrei, nonostante su di essi si debba fare ancora tanto!