Vini naturali: cinque etichette insolite e affascinanti da Vini Selvaggi
di Raffaele Mosca
Cinque vini insoliti e affascinanti dalla prima kermesse romana “tutta al naturale” da due anni a questa parte.
I migliori assaggi da Vini Selvaggi:
Koi – Chi Mera Frizzante
Quella dei vini riferimentati è una moda che va di pari passo con la rivoluzione naturale e che francamente ha esiti un po’ altalenanti. C’è chi un Metodo Ancestrale lo fa per moda o per impiegare uve di risulta e chi, invece, ha una tradizione alle spalle e una visione ben precisa. E’ il caso di Koi, azienda con sede nella zona collinare al confine tra le province di Modena e Bologna. Koi è il termine giapponese che indica la carpa, l’unico pesce che riesce ad andare controcorrente. Una bella metafora per una realtà che lavora sulle vecchie vigne, con rese decisamente più basse rispetto alla media regionale. Chi Mera – da uve Pignoletto, con saldo di Trebbiano Modenese, Alionza e Albana – è il vino più convincente della linea: schietto, citrino ed erbaceo; allegro ma non rustico, leggero quanto basta, con finale tonico al sapore di lime ed erbe aromatiche. Bottiglia da merenda, da pizza e mortadella o da pesce povero.
Zlaty Roh – Riesling Purweg 2019
Dalla parte della Slovacchia più vicina al confine con l’Austria, in un’area collinare all’intersezione tra i fiumi Danubio e Moravia. L’azienda è molto giovane, ma offre già una gamma di tutto rispetto. Golosi e centrati il Pinot Nero e il Saint Laurent, discreto anche il Gruner Veltliner. Ma questo Riesling 2019, affinato in botti neutre d’acacia, mi ha letteralmente stregato. La varietà è quella renana e i suoli sono ricchi di fossili marini come a Chablis. Il risultato è un profilo che mette insieme una parte aromatica prorompente – albicocca e ananas, cannella e propoli, lavanda – con una spinta salina impetuosa che smorza la polpa e dà grande slancio al sorso. Pulitissimo, precisissimo, mette ben in evidenza il potenziale enologico di una nazione assai meno quotata – ed esplorata – delle vicine Austria e Ungheria.
Il Trave – Coda di Volpe 2Cunti
Due annate di un vino esordiente dalla campagna di Paternopoli, paese della zona del Taurasi. Un gruppo di ragazzi ha rilevato vigne quasi centenarie di Aglianico e Coda di Volpe dai contadini che volevano disfarsene e ha cominciato a vinificarne i frutti quattro anni fa. Buona la prima e anche la seconda per il Coda di Volpe: il 2020 gioca su toni di miele e di mela matura, pepe bianco ed erbe aromatiche; è avvolgente all’ingresso e salato sul fondo, ha la struttura tipica dei vini da vigna vecchia, ma scorre alla grande; il 2019, invece, è appena più sottile, più floreale ed agrumato, e comincia già a tirar fuori qualche ricordo evolutivo di idrocarburo che lo rende simile a buon Greco con qualche anno sulle spalle. Ben fatto!
San Donatino – Dissidente e Chianti Classico Poggio ai Mori 2019
Due vini gemelli, che nascono e crescono insieme, per poi venire divisi nella fase che precede l’imbottigliamento. Il primo non viene filtrato, e si chiama così perché nasce da una partita di Chianti Classico bocciata in sede consortile; il secondo, invece, fa una filtrazione grossolana e porta in etichetta il marchio del Gallo Nero. La differenza, ad essere onesti, non è abissale: si tratta in entrambe i casi di espressione di Sangiovese dirette, schiette, senza fronzoli. Il primo è più espansivo al naso e lascia intuire un cenno di evoluzione – tabacco, liquirizia – sul fondo di un sorso comunque fragrante, giocato sul frutto di bosco fresco, con la giusta spinta acida e un tannino garbato; il secondo, invece, è ritroso sulle prime, incentrato sulle erbe aromatiche e sull’humus, ma in bocca mostra più integrità, equilibrio, ed uno slancio acido-sapido anche più netto. Di solito sono i non filtrati a convincere maggiormente, ma in questo caso propendiamo per il grossolanamente filtrato.
Cascina La Signorina – Ovada Superiore La Bocassa 2007
Di Ovada e del suo Dolcetto “di maggior corpo” parlava già Mario Soldati in Vino al Vino. Purtroppo, però, questa denominazione al confine tra Liguria e Piemonte è rimasta per decenni in un limbo, dal quale è venuta fuori solo negli ultimi anni. Mi era già capito di assaggiare qualche versione invecchiata di Dolcetto d’Ovada e beh… è un’altra storia rispetto alle etichette di altre zone che cominciano a battere la fiacca dopo un paio d’anni. Sarà che qui il Dolcetto è il vitigno principe e non un’uva di risulta da piantare dove non si può mettere il Nebbiolo. Sta di fatto che, alla cieca, questi vini verrebbero tranquillamente scambiati per altri più “nobili”. In questo caso abbiamo una versione che, a quindici anni dalla vendemmia, ha mantenuto un frutto dolce e golosissimo – amarena, susina nera – affiancato da cioccolato e tabacco mentolato, sbuffi balsamici e selvatici in pieno stile Pinot Noir. Il sorso stupisce per finezza ed integrità: soave, mentolato nei rimandi retro-olfattivi; il piglio acido di fondo è ancora vitale e dà sostegno a tutta che questa polpa avvolge il cavo orale. Smentisce categoricamente chi sostiene che i vini “senza maquillage” non possano durare nel tempo…