Villa Maiella a Guardiagrele |De nobilitate suis: la maialata di Peppino Tinari e Vittorio Fusari
di Cristina Mosca
Diciamolo: un conto è “non buttare via niente del maiale”, un conto è restituirgli la nobiltà della terra e dell’educazione. Sì, perché a Guardiagrele, al ristorante Villa Majella, fresco fresco di prima stella Michelin, i maiali sono “abruzzesamente” educati: dal patron Peppino Tinari, dai suoi figli Arcangelo e Pascal, dalla frutta, dall’acqua, dal cielo. La dimostrazione, la sera di domenica 20 febbraio, era nei piatti degli amici scelti per la terza edizione di una serata libera da formalismi e convenevoli, nel segno del maiale nero che viene lavorato a quattro mani da Angela, moglie di Peppino, e dallo chef Vittorio Fusari, direttamente dal cuore della Franciacorta.
«Lo sapevi che Arcangelo ci parla, con i maiali?»: il produttore di vini Luigi Cataldi Madonna racconta divertito, davanti al suo Cerasuolo d’accoglienza, di quella volta che solo la voce del primogenito Tinari riuscì ad ammansire i suini, chiamandoli per nome. Ecco spiegato perché i salumi serviti come aperitivo non si oppongono al palato: la carne arriva alla fase del macello già …intenerita dalle cure familiari.
La serata è stata piacevolissima e accompagnata dal Pecorino Igt ’09 Yamada Zaccagnini e dai Montepulciano d’Abruzzo Valle Reale (Vigna S. Eusanio ’09) e Citra (Caroso ’06 Magnum). Nulla è stato affidato al caso, neanche i posti in tavola, bene assortiti. Già dalle prime due portate è stato facile afferrare il tema del 2011: l’eleganza del suino. La passata di legumi, con la croccantezza del lardo fritto e la consistenza dei frascarelli, presi in prestito dalla tradizione marchigiana, ha aperto la strada ad una fantastica versione di “fegato e cipolle”, il cui imperativo era sciogliersi in bocca. A lui va il primo posto del mio personalissimo podio maialoso del 2011.
Dopo la sferzata rustica delle cordicelle al ragù di maiale, ci hanno pensato il filetto di maiale con il ragout di porri e animelle sul filo di lama tra ironico e lezioso, e l’insalata di verza, pompelmo rosa e ventresca a rimettere il menu nella carreggiata allegra e sensuale delle origini.
Irresistibile la purea di patate alla cannella e vino cotto che ha accompagnato l’ultima portata a base di fegato: idea che tenterò spudoratamente di copiare per le mie quotidiane gioie casalinghe, e che per questo si guadagna il terzo posto.
A chi spetta il secondo? Alla pizza dolce, un must della tradizione abruzzese dall’essenza talmente semplice, che i pasticceri della regione si divertono sempre a riproporla sotto tante vesti, e che a Villa Majella si è trasformata in un piccolo scrigno di delicatezze.
«Questo non è un mestiere, ma una scelta di vita – hanno spiegato gli chef finalmente usciti dalle cucine – che fonda tutto sulla qualità di un territorio che dovremmo impegnarci a difendere un po’ di più. Ma ha un segreto: un linguaggio universale che prescinde dalle tecniche di lavoro».