Villa Crespi di Antonino Cannavacciuolo
Orta San Giulio
di Fabrizio Scarpato
La villa mette un filo d’ansia. Lo stile moresco, gli archi merlettati, rilievi, stucchi e lapislazzuli vari potrebbero nascondere qualche mistero e sembrano messi lì apposta per avvertirti: occhio, che qui siamo in un altro campionato. Anche la mia Panda rossa sembra smarrita tra suvvoni dai sederi opimi, spiaggiati intorno alla fontana ottagonale. Saremo in grado di reggere l’urto? Riusciremo, d’altro canto, a mantenere la necessaria lucidità, senza cadere nella trappola del fighettismo saputello? A volte, peraltro a livelli nemmeno paragonabili a questo, succede che tra le parti si inneschino perversi giochi di ammiccamenti e di onanismo gastronomico vicendevole, francamente intollerabili, per non dire pericolosi. Sarà che ho visto la fine che fa il gastrofighetto in un brutto film appena uscito, ma insomma non vorrei finire appeso per il collo a quei variopinti archi incrociati dell’ingresso, magari proprio nel corridoio, in cui da uno sterminato frigorifero occhieggiano bocce di Krug, Cristal e ogni bendidio bollicinoso, tanto per mettere a proprio agio l’ospite ligure della Panda rossa, timoroso di sé e del suo portafoglio.
Tuttavia la paranoia viene a galla attraverso il conflitto eterno che ogni appassionato cova nella mente distonica: sappiamo che la presenza dello chef non è fondamentale, ma al tempo stesso laggiù in quell’angolino dell’amigdala, bè… risulta che, in fondo, il fatto che lo chef sia presente è in realtà condizione essenziale per trovare un primo accenno di soddisfatta tranquillità.
“Facciamo una foto?”: gli arrivi a malapena sopra la spalla, ma inopinatamente ti senti più sereno, quasi avessi preso le misure, del posto e soprattutto delle intenzioni. Guardi ancora gli archi, ripensi al tipo del film e ti viene spontaneo buttare disinvoltamente alle ortiche dieci anni di assidue sedute di Masterchef, senza rimpianto, come liberato.
E’ un normale giovedì di ottobre, a pranzo, e le sale sono quasi al completo. Sembra che il rito della foto abbia prodotto effetti analoghi in tutti i commensali: si parla, si ride, comodi e distanti. Aleggia quel magnifico brusio, confuso col tintinnio dei brindisi e delle posate, quasi un naturale, esile sottofondo musicale che profuma di agio e confortevolezza.
La moltitudine di giovani camerieri danza attraversando velocemente le tre sale, in una sorta di moto perpetuo, senza scontrarsi mai, quasi camminassero su binari invisibili. Unica traccia del loro passaggio il cigolio dell’antico, splendido parquet. Vassoio, gueridon, piatti, acqua, vino, cloche, guanti bianchi, briciole, gueridon, piatti, vassoio. Sorridono, sembrano contenti. Trasmettono empatia, semplificando imprevisti e cose difficili, come sanno fare i campioni. E sei contento anche tu.
Come tutti, a quanto pare: c’è un clima rilassato e festoso, educato e ovattato. C’è chi si sposa, chi s’è sposato e chi magari si sposerà. Mi sento un po’ anziano. Tutti bevono bollicine, dal costo molto variabile, scelte da una carta elettronica profondissima nelle grandi maison di Franciacorta (sulla voce Champagne nemmeno ho cliccato…) in cui è bello scovare referenze meno scontate, perse qua e là, tra le pagine, con ricarichi abbordabili.
Sembra Natale, complici il blu, il rosso e il verde salvia degli arredi, con aggiunta di tocchi dorati. I piatti in effetti sono regali, tanto desiderati quanto noti, tuttavia ancora sorprendenti: assolutamente mostruoso gli Scampi crudi alla pizzaiola, con un pomodoro mai provato così setoso, denso, fresco e intenso: ci lavorano settemila addetti per diecimila giorni, usando alambicchi e acqua di polpo. Fantastico, mai quanto la scarpetta finale, sintomo evidente di definitivo e scostumato ambientamento.
Il Cubo di carne di Boves, cipolla marinata, cetriolo, caviale e ostrica è semplicemente goloso, mentre la Linguina di Gragnano, calamaretti e salsa al pane di segale, semina piccoli, piccolissimi dubbi: alla cottura come si deve, fa da contrasto una mantecatura eccessivamente scivolosa, coi calamaretti, di per sé incantevoli, sovrastati dalla salsa di pane, per una forchettata di morso e vagamente fumée, ma poco pimpante. Forse dovrei riprovare: cerco di rallentare, ma il piatto è già finito, e ci sarà un motivo.
Il menu di Antonino Cannavacciuolo
Di una compattezza sovrannaturale il Rombo chiodato, conchigliacei, alghe marine e taccole, giustamente bilanciato tra dolcezza e sapidità, mentre le Rane al burro, chantilly all’aglio e crocchetta di riso Zizania creano dipendenza, sia per la bontà che per la presentazione, le coscette nei bricchi di rame su un letto di profumatissime, tiepide erbe aromatiche (lo so, la definizione è un po’ anni ottanta, ma tant’è).
L’eccitazione prevale, e ti ritrovi indaffarato tra ossetti e tuffi nella crema, ma si sa… una rana tira l’altra.
Ma il bello sono quei doni inattesi, messi di lato, piccoli ma non per questo meno indimenticabili. C’è il brodo di carne piemontese spruzzato di vermouth con gli aperitivi, i grissini fini come capelli d’angelo, il cannoncino col ragù, il pane, il burro, la marinatura della trota in carpione, il caviale e la salsa d’ostrica che imbizzarriscono il Cubo di fassona immacolato; e ancora la crocchetta di riso Zizania (a bizzeffe), le taccole (proporrei una millefoglie con maionesi varie), la branchia del rombo e relativa polpettina, il Comté trentasei mesi tra i formaggi dell’astronave, le perle di bicarbonato nel pre-dessert, le finte olive ghiacciate ripiene di liquore (d’olivello spinoso?) che bombardano il dolce, giustamente un po’ salato, con poco cioccolato, e declinato su una sorta di fenomenologia dell’olio d’oliva; infine le sfogliatelle ricce, una nuvola, tra la piccola pasticceria che accompagna il caffè. Montagne russe, solo che non fanno paura, anche se urleresti spesso come un forsennato, se non fosse per il terrore di finire impiccato dietro un’inquietante tenda blu notte.
Scopro l’acqua calda se cito il peraltro dichiarato concetto di itinerario lungo la penisola, così come il chiaro riferimento a certi echi e sfumature francesi o franco-piemontesi, ma in sostanza, fatta la tara per un veniale abuso della parola “iconico” da parte del servizio di sala, il pranzo è volato via in una sorta di abbraccio, per non dire ciclonica, partecipata pacca sulla spalla.
Cucina di pancia e di cuore, intrisa di convivialità. Che non vuol dire passarsi di mano in mano la bislunga dei ravioli, ma condividere un sentimento, uno stato d’animo, diffuso e sussurrato dai diversi piatti che giungono via via ad ogni tavolo, srotolando una sorta di gomitolo di partecipazione, che è il vero focus del pranzo, quasi un filo rosso, impreziosito da comuni moti di stupore infantile.
Certo la tecnologia non manca: volendo metterla su questo piano, basterebbe un cucchiaino della salsa di pomodoro della pizzaiola per discettare di massimi sistemi, di vuoti sottosopra e gradienti osmotici, per non dire di quel brodo assoluto o della perfezione trompe-l’oeil del pre-dessert. Sì, anche qui, soprattutto qui. E non ci si annoierebbe di certo, in ogni caso senza mai dimenticare le capacità tecniche, intese come scuola, manualità nelle salse e sensibilità nelle cotture.
Ma poi, spezzando lance di solidarietà, pensandoci bene, alla fine anche certe cose complicate e apparentemente incomprensibili rendono la vita più movimentata e meno monotona: magari verranno utili col tempo; non solo, ma la noia, come l’ozio, va forse gentilmente coltivata, sapendo se possibile stare in equilibrio su quell’esile filo (ops, la forca è sempre pronta, in quell’angolo scuro).
No, non è questione di noia e francamente non è nemmeno questo il caso: è solo questione di senso.
I piatti di Antonino Cannavacciuolo sono tecnicamente ineccepibili, sono contemporanei e sono buoni, di quel buono che sa toccare il cuore. Ecco il senso. Perché agli effetti speciali, il cuoco antepone un fuoco d’artificio di effetti sentimentali.
Ecco cos’era, cosa sottintendeva quella foto: nessuna prosopopea, nessun divismo. Semplicemente un benvenuto, nella sua casa. E per molti questo vuol dire tanto, forse tutto.
La mia Panda rossa, di ligure che tiene famiglia, è rimasta sola soletta tra la siepe e la fontana. Riparto e guardo la villa: ora, col sole al tramonto, sembra meno misteriosa. Ma probabilmente dipende da una incontenibile botta di felicità, di quelle che zittiscono la carta di credito, di quelle che restano e ti fanno stare bene.
Villa Crespi e la strepitosa cucina di Antonino Cannavacciuolo: il due stelle con la stella mancante