Vignaioli naturali a Roma: i nostri dieci assaggi preferiti
di Gianmarco Nulli Gennari
I romani appassionati di vino hanno ormai l’imbarazzo della scelta. In questo tiepido e piovoso autunno non sono mancate le occasioni per assaggiare i prodotti di tante aziende sparse per lo Stivale, in particolare di quelle cosiddette “naturali”. Una vera pioniera, in questo senso, è Tiziana Gallo, che ormai da anni organizza grandi degustazioni di vini realizzati nel rispetto quasi religioso dell’ambiente e della salute dei consumatori. Da quest’anno, poi, Tiziana ha anche aperto un piccolo locale dalle parti del tribunale, a piazzale Clodio, dove è possibile bere e acquistare molti dei prodotti delle cantine protagoniste delle sue manifestazioni.
Anche quest’anno al Westin Excelsior di via Veneto non sono mancati vignaioli già noti o in rapida ascesa da segnalare ai consumatori più attenti e curiosi. Ecco una sintesi, in mero ordine di apparizione, dei nostri migliori dieci assaggi.
Fiano di Avellino Ciro 906 2012 – Ciro Picariello.
Il suo nome, in verità, è tutt’altro che sconosciuto agli appassionati dei vini irpini più sinceri e viscerali. Anche stavolta ci convincono le bottiglie di Ciro, a partire dalle nuove annate (2015) di fiano e greco, ancora giovani ma sapidi e promettenti. Questo è invece il suo “grand cru”, ottenuto da uve dell’areale di Summonte (l’azienda possiede altre vigne a Montefredane), ed è un’annata già da un po’ in commercio: forse nelle enoteche troverete più facilmente la 2013. Ma l’evoluzione di questo campione ci fa veramente sobbalzare: naso intenso di torba, zolfo e ginestra, affumicato, con note agrumate e di macchia mediterranea. Bel sorso, polpa e grinta da vendere, trama fittissima, ampio e alcolico, quasi opulento, dà l’impressione di essere ancora a inizio corsa. Può evolvere almeno una decina d’anni prima di raggiungere l’apice. A margine, segnaliamo il piacevolissimo Brut contadino, dal perlage molto fine, beverino e rispettoso del varietale.
Verdicchio dei Castelli di Jesi 2015 – Col di Corte
Giacomo Rossi, romano, produttore cinematografico (cui si deve il documentario “Resistenza naturale” di Jonathan Nossiter), ha da poco rilevato vigne e cantina di un’azienda di Montecarotto, ma è già capace di sorprenderci con il suo verdicchio. Bello il gioco che ci propone: ci fa assaggiare prima un vino fermentato con i lieviti selezionati, poi un altro, stessa annata e stessa partita di uve, da lieviti indigeni. Il primo è molto buono, ma il secondo gli è superiore grazie a quella che è stata brillantemente definita “naturalezza espressiva”. Belle note agrumate, di grano e anice all’olfatto, bocca sapida e grintosa, nitidi ritorni minerali e ammandorlati in persistenza. Da seguire.
Carso Vitovska Riserva Collection 2006 – Benjamin Zidarich
Non è una novità, anzi è sul mercato da cinque anni, ma ogni volta che ci capita di assaggiare questo vino ne restiamo rapiti. È il frutto di una selezione drastica dei grappoli migliori, macerati sulle bucce per 20 giorni. Poi affina per quattro anni in botti di rovere di Slavonia e sta un altro anno in bottiglia. Dodici gradi e mezzo di alcol, 1.500 bottiglie, prezzo importante: circa 80 euro in enoteca. Profuma di miele ed orzo, con sfumature fumé e di agrumi, ha una beva di carattere, avvolgente, dal grande allungo, dominata da una scia salina che accompagna il lunghissimo finale. Molto buone, come sempre, anche la Vitovska e la Malvasia “annata” (in questo caso la 2014).
Rosato Terre Aquilane 2015 – Praesidium
Stavolta, a causa di problemi burocratici non meglio specificati (ma le commissioni di assaggio per assegnare la fascetta non sono nuove a prodezze al contrario…), esce come Igt e non come Cerasuolo Doc. Ce ne faremo una ragione: il bicchiere racconta, come sempre, un’esperienza molto gradevole, quasi entusiasmante. Il rosato di casa Pasquale è, per noi da tempo, tra i più golosi d’Italia. Affinato in acciaio, offre al naso intriganti sentori di amarena, melograno, sangue e geranio; morbido ma anche sapido al palato, dolce e vibrante, davvero piacevole nel suo sottile equilibrio, dall’evidente vocazione gastronomica. Il Montepulciano Riserva 2012 mostra già ora un buon equilibrio, ma la sua esuberanza tannica invita all’attesa, suggerendo un notevole potenziale di invecchiamento.
Etna Rosso Cru Cimonaci 2008 – Valcerasa
I vini di Alice Bonaccorsi e Rosario Pappalardo sono frutto di una strategia poco interventista in vigna e di lunghi invecchiamenti in cantina (il loro rosso “d’annata” in genere esce con due anni di ritardo rispetto alla norma). Ne ottengono prodotti austeri e complessi, tutt’altro che banali. Da un po’ di tempo ci sembra di scorgere una crescita di focalizzazione espressiva e aromatica, il che li rende anche più accessibili in gioventù. Dopo le prove maiuscole del Rosso Relativo e dell’Etna Rosso 2011, stavolta ci ha colpito il “top di gamma”, un cru fin dal nome (è un gioco di parole, la contrada di provenienza delle uve si chiama Cruci Monaci). Una bottiglia che circola già da un paio d’anni, cui ha senz’altro giovato un ulteriore affinamento in vetro. Oggi ha un profilo da fuoriclasse: l’areazione del bicchiere porta in primo piano il frutto (tamarindo, ciliegia), la cenere spenta, lievi note affumicate e animali, pepe; in bocca è terroso, di ottima struttura; persistenza notevole caratterizzata da tabacco da pipa e resina.
Rosso 2014 – Viteadovest
Restiamo in Sicilia ma ci spostiamo a Occidente, come indica il nome della cantina dell’enologo Vincenzo Angileri. Qui, nelle campagne tra Marsala e Salemi, ha piantato cinque anni fa alberelli di nerello mascalese e nero d’Avola con il dichiarato proposito di ottenere dall’uvaggio (vendemmiato in epoche diverse assecondando le diverse curve di maturazione dei due vitigni) un vino equilibrato in termini di tannini e acidità. Questa 2014 è la seconda annata imbottigliata, vinificata prevalentemente in acciaio; l’intenzione è di passare al cemento. Registro aromatico originale, giocato sull’evoluzione ma con il frutto in primo piano e una traccia di volatile; il sorso è succoso e di buona profondità. Non male anche il Bianco 2014, da grillo in prevalenza e saldo di catarratto, macerato a lungo sulle bucce. Un bel segnale di vitalità da una zona sonnacchiosa fino a pochi anni fa.
Cesanese del Piglio Collefurno 2013 – Carlo Noro
Risaliamo la penisola e ci fermiamo nel Lazio. Da anni in questa regione le notizie più stimolanti per gli appassionati in cerca di vini sinceri e originali arrivano dalla zona del cesanese, ricca di cantine fortemente legate al territorio. Carlo Noro da un po’ di tempo ha affiancato il suo lavoro sulle preparazioni biodinamiche (tra i suoi clienti c’è Nicolas Joly, per dire) all’attività di viticoltore. Con l’aiuto dei figli ottiene da uve di antichi vigneti questo rosso che abbina la grinta del vino contadino alla grazia e alla bevibilità trascinante dei migliori “village” di Borgogna. A un naso ancora non perfettamente a fuoco ma caratterizzato da un frutto nitido segue un palato rustico e saporito, golosissimo e pronto per la tavola.
Valtellina Sup. Grumello Riserva Rocca de Piro 2011 – AR.PE.PE
L’altro nebbiolo, che si chiama chiavennasca, ci regala spesso bevute emozionanti, nella maggior parte dei casi firmate da questa splendida azienda familiare di Sondrio. Oggi non parliamo delle due etichette più celebri, il Vigna Regina e il Rocce Rosse (comunque presente al banchetto con una versione 2007 sontuosa come sempre), ma dedichiamo qualche riga al Rocca de Piro, segnato all’olfatto da erbe di montagna, carne cruda, poi lampone e cenni balsamici. In bocca è polposo e scattante, la rotondità del frutto è ben contrastata, ha un finale elegantissimo, giocato sulla souplesse gustativa e punteggiato da guizzi di acidità.
Langhe Nebbiolo 2014 – Giuseppe Cortese
Anno dopo anno i vini di questa azienda non smettono di stupirci. Riescono a coniugare con naturalezza complessità, leggiadria e, soprattutto nel caso della Riserva Rabajà, uno dei più nobili cru di Barbaresco, anche potenza. Stavolta parliamo del “semplice” nebbiolo, oltretutto di un’annata umida e complicata, superata in scioltezza. Matura per un anno in botte grande e altri sei mesi in vetro. È un vino sottile, odora di rosa e melograno, ciliegia schiacciata e spezie dolci. Anche il sorso è tutto giocato in sottrazione, con viva corrente acida e tannini già integrati, stimolante nelle sue sfumature agrumate. Tipicissimo e conviviale: perfetto con i piatti della tradizione (agnolotti del plin, tajarin, carne di animali da cortile). Il Barbaresco 2014, presentato in anteprima, è davvero promettente ma deve ancora assestarsi.
Bramaterra 2013 – Odilio Antoniotti
È l’unica denominazione del nord Piemonte a non prendere il nome in prestito da un comune, e guarda caso è la più ampia geograficamente. Nella generale riscoperta critica dei vini di questa zona, è forse rimasta un po’ nell’ombra. Ma il lavoro di questo vignaiolo, la cui famiglia coltiva nebbiolo (qui chiamato spanna), croatina, vespolina e uva rara da sette generazioni, dimostra da tempo che si tratta di un terroir di valore assoluto, caratterizzato dal porfido di origine vulcanica. Piante ultra-quarantenni, niente diserbanti in vigna, solo lieviti autoctoni in cantina, almeno 30 mesi in botte. Naso di fragola, sottobosco e liquirizia, sapidità minerale di sale marino e di roccia, articolato, succosissimo e vellutato nel lungo finale. E in più, cosa che non guasta affatto, prezzo “umano” (intorno ai venti euro). Insomma, una delizia e un affare.