Viaggio nel Vulture
Forte tradizione da difendere e grandi cambiamenti in corso da portare al termine per recuperare il ritardo accumulato: la campagna lucana ridisegna la propria identità attraverso gli occhi vispi di Marcella Traficante impegnata sulle due attività classiche del Vulture, l’acqua e il vino. Con la mamma Aureliana e la sorella Maria Grazia è impegnata, ormai è la quinta generazione, a lavorare nell’ultra moderno stabilimento di acque minerali costruito alla periferia di Rionero a cui fanno riferimento i marchi Sveva, Lilia, Toka, Solarca e, naturalmente, Traficante. Con il marito agronomo Gerardo Giuratrabochetti, grande esperto di formaggi lucani, ha coltivato e realizzato il sogno di produrre aglianico di qualità: l’incontro con il professore Luigi Moio, l’acquisto e la ristrutturazione di antiche grotte di tufo scavate nel centro del paese dai padri francescani cinque secoli fa, la riorganizzazione delle vigne a Maschito e finalmente la nascita della Firma e del Repertorio, i due rossi della Cantina del Notaio. Insomma, acqua e vino, vino e acqua.
Acqua dalle profondità del Vulture, il vulcano squarciato in sette crateri da una delle più violente esplosioni mai avvenute in Italia 800.000 anni fa. Vigneti piantati sul terreno sabbioso e argilloso di questa parte della Basilicata, incuneata tra la Campania e la Puglia, molto amata da Federico II per i suoi boschi ricchi di selvaggina . Un castello qui, uno là, e poi le incredibili cattedrali e le chiese, i palazzi nobiliari, i monumenti e i resti archeologici lasciati dai romani che sui bordi dell’Appia si divertivano e commerciavano floridi. Melfi, Rionero, Venosa, Acerenza, Ripacandida, Ginestra, Rapolla, Barile: ciascuno dei comuni di questo Mezzogiorno molto riservato e poco conosciuto riserva al visitatore tante sorprese e due vantaggi, un costo della vita più che accessibile comunque non turistico e la comodità del viaggio consumato tutto tra autostrada e superstrada. L’uscita sulla Napoli-Bari è Candela, da qui pochi chilometri e poi si arriva dove si vuole rapidamente.
Attorno al Vulture la vendita dell’acqua e del vino ha una storia antica.Un mercato, questo delle minerali, per molti decenni solo regionale e poi nazionale quando le bottiglie di vetro sono state affiancate da quelle di plastica. <Le nostre acque – dice Aurelia Traficante – sono restituite dal vulcano dopo qualche decina di anni, non sono sorgenti di superfice come quasi tutte le altre in Italia, ma di profondità>. Curioso questo Aglianico: il suo regno è segnato a nord dal vulcano spento di Roccamonfina ai confini tra Campania e Lazio dove imbottigliano Ferrarelle e Lete e a sud dal Vulture dove operano, oltre al gruppo Traficante, i marchi Cutolo e Gaudianello. Acqua e vino, vino e acqua.
<L’aglianico – spiega Moio, ordinario a Foggia – ha sicuramente un carattere molto difficile, si tratta di un vitigno tardivo a bassa resa i cui tannini richiedono sempre particolare attenzione. Ma i risultati possono essere davvero eccezionali>. Per non parlare delle possibilità di invecchiamento: dieci anni per questa uva non sono nulla, molti continuano sbrigativamente a definirlo il Barolo del Sud anche se le caratteristiche, a cominciare dal colore, sono decisamente distinte e tra i due vitigni non c’è alcun rapporto diretto.
L’aglianico vive da oltre duemila anni tra le nebbie misteriose cariche di streghe e di briganti dell’Appenino Meridionale, si raccoglie tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, a volte con la neve appena caduta perché qui il clima è fresco d’estate e rigido, molto rigido, d’inverno. Siamo sempre in collina, il caldo afoso della costa è un ricordo stampato sui depliant turistici mentre le escursioni termiche nei mesi estivi sono sempre significative. Il suo territorio, ricordate la Gallia di Cesare, lo si divide per comodità in partes tres, anche se questa uva rientra un po’ in molte doc e igt della Campania, della Basilicata e della stessa Puglia: Taurasi in Irpinia, Aglianico del Taburno nel Sannio e Aglianico del Vulture in Lucania. In questo triangolo rosso Moio sviluppa il suo progetto, unico enologo impegnato su tutti e tre i fronti con Caggiano a Taurasi, Cantina del Taburno a Foglianise e Cantina del Notaio a Rionero.
Basta sedersi a tavola o conoscere l’economia reale della zona per cogliere una caratteristica unica: in nessuna regione italiana c’è una tale piena e profonda identificazione nel rapporto con il proprio vitigno come la Lucania con l’aglianico. Tanto che solo dalla vendemmia di quest’anno, che anche qui si annuncia molto buona, è previsto l’esordio della seconda doc Terre dell’Alta Val d’Agri, mentre dal 1971 c’è sempre stata unicamente quella del Vulture affiancata dalle igt Basilicata e Grottino di Roccanova. Il riconoscimento doc costituì in quel periodo sicuramente una prima efficace tutela verso altri vitigni più produttivi che incalzavano spesso consigliati proprio dai funzionari pubblici, ma nonostante la storia così lunga e le radici così profonde nella cultura materiale quotidiana, per molti anni questo vino è apparso come estraneo al grande fermento innovativo che ha segnato la rinascita della viticoltura italiana e meridionale. Per questo vitigno, qui chiamato anche Gesualdo o Ellenico, sembrava non esserci altro destino che quello di essere apprezzato dai palati tradizionalisti, da clienti capaci di attendere qualche anno l’elevazione in bottiglia, da pochi critici non omologati alla morbidezza vanigliata come valore principale per giudicare il bicchiere. Complici certamente anche metodi non aggiornati soprattutto di coltivazione oltre che gli scarsi investimenti in cantina.
Poi, negli ultimi anni, il risveglio, addirittura la frenesia. Anche qui il processo imititativo tipico dei contadini, sempre lenti a cambiare ma veloci a copiare i successi del vicino, ha innescato la corsa verso il miglioramento del prodotto e alla sua diversificazione. Tre gli elementi alla base di questo cambiamento e del successo dell’Aglianico del Vulture: l’essere un rosso di corpo ben strutturato, la scoperta e la valorizzazione sul mercato di vitigni autoctoni in grado di offrire prodotti meno scontati e omologati, la buona media qualitativa di partenza di gran parte dei produttori a differenza di quanto è avvenuto in quasi tutto il resto del Mezzogiorno dove il vino è stato difettoso quasi ovunque sino all’inizio degli anni Novanta. Qui il prodotto per essere venduto è stato solo migliorato, non cambiato. Naturalmente, come ovunque in Italia, il dibattito su botte o barrique non manca e aiuta a marcare ancora di più le rivalità. Alla fine però la corsa alla qualità è un dato scontato per tutti e nessuno gioca più a fare l’incompreso e la vittima.
I due pilastri del rosso lucano sono Paternoster e D’Angelo, due aziende fondate rispettivamente nel 1925 e nel 1930. Vito Paternoster è un po’ il personaggio bandiera dell’Aglianico del Vulture, il suo ingresso nella cantina di vinificazione costruita dal nonno Alfonso ha determinato una svolta decisa e al classico Don Anselmo sono stati affiancati altri prodotti molto apprezzati negli ultimi due anni. Donato D’Angelo è un produttore impegnato a lavorare solo le uve di proprietà e a difendere le proprie scelte senza preoccuparsi troppo di inseguire le mode. L’unico strappo alla regola della tradizione è il suo bianco Vigna dei Pini da uve chardonnay, pinot bianco e Incrocio Manzoni giustificato dal fatto che il Vulture, a parte un po’ di Moscato, non ha alcuna tradizione di bianco a differenza della vicina Irpinia.
Presenze significative tra Rionero e Barile sono Sasso (l’azienda è Eubea-Famiglia Sasso), Armando Martino, Basilisco, Allegretti, il Consorzio Viticoltori Associati del Vulture, a cui si è aggiunto Cantine Di Palma e Tenuta del Portale. La novità, oltre alla Cantina del Notaio, la Tenuta Le Querce della famiglia Pietrafesa. A Barile la visita alle aziende può essere completata da quella alle tipiche cantine costruite dai contadini scavando sul lato settentrionale di una collina appena fuori il centro abitato. Nella vicina Rionero si può andare a Il Cantinone, il primo punto di ritrovo per provare i vini della zona per chi non ha il tempo di completare le visite. Salumi e formaggi, tra cui il pecorino della vicina Filiano, sono da sempre il migliore abbinamento possibile con questo rosso: infatti tra caciocavallo podolico, canestrato di Moliterno e caprini si può dire che proprio nel settore caseario la Basilicata ha investito di più e con anticipo grazie all’Istituto Sperimentale di Belle e all’Associone Formaggi Sotto il Cielo presieduta da Roberto Rubino. E, per restare all’abbinamento, senza andare alla solita selvaggina che ormai si trova solo sulle etichette, sicuramente la carne e le animelle dell’agnello sono il cibo migliore a cui riservare un sorso di Aglianico del Vulture.
La maggior parte della viticoltura lucana però non è a Rionero, né a Barile ma nella vicina Venosa: qui il terreno è argilloso, le colline degradano dolcemente verso la Puglia, le Murge sono proprio di fronte ad una tiro di schioppo. Nel comune di Venosa oltre 900 ettari di vigneti sono il patrimonio dei 500 soci che conferiscono le loro uve alla Cantina Sociale fondata nel 1957. Nel corso dei decenni la struttura ha difeso il reddito dei produttori ed è stato uno dei pilastri economici principali per i contadini vendendolo sfuso praticamente a tutta l’Italia del vino che conta, parlano le fatture non è millanteria raccolta tra i vigneti. Dal 2001 la svolta commerciale con l’arrivo dalla Biondi Santi di Giuliano Stanici che ha impresso un deciso cambio di immagine ad una struttura ancora troppo ferma su antichi criteri di mercato. In due vendemmie le bottiglie prodotte sono raddoppiate, siamo ad oltre mezzo milione, soprattutto grazie alla buona politica dei prezzi che restano sicuramente competitivi. La cantina, diretta dal presidente Teodoro Palermo è davvero imponente e merita una visita: nei due grandi fabbricati costruiti all’ingresso del paese sull’Appia le barrique e la più aggiornata tecnologia si affiancano alle antiche vasche di cemento. Il prodotto di punta è il Carato Venusio a cui da un paio di vendemmie è stato affiancato il Dry Muscat, un moscato secco sicuramente originale e di grande stoffa.
E qui, a Venosa oraziana dove pulsa il cuore dell’Aglianico del Vulture, c’è anche la presenza lucana del Gruppo Italiano Vini, il più grande produttore vitivinicolo italiano che con la formula “tante piccole aziende in una grande azienda” cerca di interpretare i mille volti del vigneto nazionale. Sicilia, Puglia e Basilicata appunto fanno parte del progetto Sud partito cinque anni fa e si capisce perché: nel Mezzogiorno la quantità e il buon rapporto con il prezzo non costituiscono un problema e consentono anzi di affrontare bene i numeri del mercato globale. Re Manfredi, questo l’austero Aglianico del Vulture interpretato da Nunzio Capurso che è anche presidente di Tenuta degli Svevi, esiste davvero, non è solo il nome del figlio di Federico II che in città ha costruito uno dei suoi castelli. Parliamo di 120.000 bottiglie nate dalle uve degli 84 ettari risistemati a Pian di Camera la cui conduzione è seguita passo dopo passo da Giovanni Montrone, appena appena fuori il centro abitato, che dichiarano 14 gradi: un vino del Sud dunque, di corpo, molto concentrato ma anche, e qui c’è lo scarto rispetto alla massa di bicchieri da masticare, di assoluta eleganza di profumi fruttati e di grande equilibrio speziato in bocca.
Venosa merita visita e soggiorno anche per l’anfiteatro ben conservato e gli scavi romani, le chiese, i palazzi, l’abbagliante centro storico lastricato in pietra bianca e ovviamente per il winebar aperto da poco a piazza Orazio. Nella vicina Acerenza oltre ad una delle più belle cattedrali del Mezzogiorno c’è la Cantina Basilium fondata nel 1997 e che produce circa un milione di bottiglie ad un ottimo rapporto tra qualità e prezzo.
Insomma il risveglio significativo coinvolge tutto il territorio che ha trascinato su questo fazzoletto meridionale di terreno vulcanico cospicui investimenti e dove la ricerca continua: l’Università della Basilicata in collaborazione con un paio di istituti sperimentali ha già fatto studi sulle selezioni clonali dell’aglianico per la registrazione di quelli migliori e sui lieviti. L’intenzione è attestarsi sulla biodiversità e la tipicità del bicchiere lucano, che ha il pregio di conservare ancora prezzi accessibili. Poi, così come è avvenuto altrove, quando arriverà la definitiva consacrazione del successo saranno pochi a non perdere la testa conservando prezzi in grado di essere competitivi nella battaglia quotidiana appena iniziata con i vini del Nuovo Mondo. Ma questo è uno scenario futuro, purtroppo prossimo. Il presente è fatto invece di scoperte e viaggi, di buoni affari in un territorio antico dal sicuro avvenire, il momento magico per conoscerlo.
Pubblicato su Cucina e Vini, novembre 2003