Verticale di Vigna Cataratte, Fontanavecchia. La longevità dell’Aglianico del Taburno
di Pasquale Carlo
Interessante serata, quella di venerdì 8, per toccare con mano la lunga vita dell’aglianico del Taburno. L’appuntamento è con la prima verticale di ‘Vigna Cataratte Aglianico Taburno Doc Riserva’ dell’azienda torrecusana Fontanavecchia. Cinque le etichette degustate insieme alla condotta beneventana di Slow Food al Bed&Breakfast Le Camerelle di Pietrelcina. Un bel percorso indietro negli anni partito dall’annata 2005 e conclusosi con la 1996, passando per la 2003, 2001 e 1998. A guidare le degustazioni il vulcanico Alberto Capasso, con il titolare dell’azienda Libero Rillo nel ruolo di supporto informativo ogni qualvolta l’attenta platea chiedesse delucidazioni in merito alle uve ed al processo lavorativo.
Nel presentare il vino, Libero ha subito chiarito che si tratta del vino più “tradizionale” prodotto da Fontanavecchia, nel senso che questa etichetta nasce da un processo molto semplice in cantina: vinificazione a temperatura controllata con circa venti giorni di fermentazione, mentre la sosta in legno varia a seconda delle annate da sei a nove mesi.
Prima di passare in rassegna i cinque calici degustati, merita una particolare attenzione proprio il sapiente utilizzo del legno che traspare dal ‘Vigna Cataratte’. In questi ultimi tempi i vini affinati in legno non godono certo di molta “simpatia”, con le barrique nel centro del mirino. Mi trova pienamente d’accordo Libero quando parla del connubio legno-aglianico e dei risultati a cui si giunge quando le barrique sono compagne mai invasive. La conferma, del resto, è arrivata al termine della degustazione delle cinque etichette. Dalla 2005 alla 1996 il legno non copre mai il nettare e, man mano che procediamo nel percorso indietro nel tempo, le note trasmesse dalla barrique si fanno sempre più mature ed eleganti.
2005 @@@+ L’avvio è stato veramente interessante: vivacità intensa nel rosso rubino e una bella brillantezza. Quello che più mi ha colpito è stata la perfetta corrispondenza olfatto-palato. Al naso si avverte ancora una intensa e fresca vinosità, ed il palato fa emergere tanti frutti rossi e un ampio ventaglio acido a denotare la gioventù di un vino che è chiamato a dare ancora tanto nella lunga durata che lascia presagire
2003 @@+ E’ il calice che è piaciuto meno. Il suo inserimento, come ha spiegato bene il produttore, è stato fortemente voluto per dimostrare che l’aglianico, anche in una vendemmia poco felice come la 2003, è stato in grado di mantenere un livello qualitativo sempre accettabile. Io ci aggiungo una piena convinzione per la buona acidità nonostante l’annata caldissima, così come mi ha convinto non poco il palato, dove però il vino si è mostrato corto rispetto alle altre etichette degustate.
2001 @@@@ Di questo vino è stato già scritto tutto. L’aspetto che in questa occasione ha entusiasmato è stato il primo approccio olfattivo al calice. Con Alberto Capasso pensavamo quasi si trattasse di un vino con qualche nota poco convincente. Ma tutto è durato un attimo. Vino poliedrico, mai decifrato con esattezza perché miniera in continua evoluzione, soprattutto al naso. Ecco, è questo per me il bello della passione nella degustazione: trovarsi di fronte ad un calice che quando appare vicino ad essere decifrato, ti presenta un lato nuovo, aprendo l’orizzonte a sensazioni estreme. Il frutto rosso al naso ha lasciato via via il posto a delle composte, e poi l’emergere del cioccolato, del caffè e delle note speziate. Ed ancora altro. Stesso discorso per quel che concerne il palato, dove il vino coniuga in maniera impeccabile complessità e godibilità.
1998 @@@+ Altro calice particolarmente enigmatico. Questo millesimo ha soltanto pagato la non perfetta pulizia iniziale al naso, con il vino che già alla vista presentava visibili solidità in sospensione. L’invito che faccio a Libero è di farlo riprovare in un calice più adatto (per ampiezza) o magari con una breve decantazione. Una volta superato questo scoglio, anche quest’annata si è mostrata piacevole, interessante soprattutto al naso e godibile in modo pieno nella lunga persistenza, dove l’aglianico ha anche perso quella leggera nota amarognola di chiusura.
1996 @@@@+ E’ il vino che mi ha entusiasmato. Per diversi motivi. Concordi sulla grande potenzialità della 2001, ma qui la convinzione è doppia per la notevole concordanza naso-palato che si registra a quasi tre lustri dalla vendemmia. Stessa concordanza provata all’inizio con la 2005, amplificata appunto dall’età del nettare. Naso complesso, con note terziarie e avvertita mineralità. La bocca? “Dissetante” è il termine che viene subito alla mente, un vino piacevolissimo che nonostante i suoi quattordici anni mostra la sua baldanzosa piacevolezza proprio al palato, con una beva mai stancante, con la sostenuta acidità che richiama sorsi successivi. A guardare i tavoli dei partecipanti alla degustazione non a caso è stato proprio questo il campione che tutti hanno bevuto per intero.
A chiusura della degustazione, il discorso è andato all’esperienza vissuta per la guida Slow Wine – che fra qualche giorno avremo finalmente la possibilità di sfogliare – ricordando le degustazioni di inizio luglio a Paestum, con tante etichette ‘Aglianico del Taburno’ in passerella, quasi tutte annate 2006 e 2007. Con Alberto abbiamo ricordato la complessità di quelle degustazioni, dovuta a vini ancora giovani ed un tannino acerbo e molto astringente. A dover trovare una “difficoltà” per questo vitigno, eccola: un vino per cui la strada delle guide non è certamente semplice da percorrere. Si tratta di un vitigno che va conosciuto fino in fondo, sapendo attendere i suoi tempi: l’aglianico del Taburno, superata la soglia dei sei-sette anni, si evolve in maniera esplosiva ed intrigante. Un vino poco “commerciale”, se consideriamo gli sforzi economici che i produttori sono chiamati ad affrontare, e soprattutto l’attesa; ma un vino – proprio per questo – di grande valore.
In conclusione, qualche appunto sulle belle sorprese che Erasmo Timoteo ha selezionato per chiudere in modo impeccabile la serata, servita anche per l’importante causa della raccolta fondi per Terra Madre. Ottimo il ‘Biopane’ prodotto da La pacchiana di Montecalvo Irpino: semola di grano duro da agricoltura biologica e lievito madre. A fargli compagnia – oltre all’olio extravergine di oliva prodotto da Libero Rillo da cultivar ortice (50%), leccino, frantoiana e racioppella – una degustazione di prosciutto di Pietraroja (quello autentico, bello sapido e tagliato a tocchetti larghi due-tre centimetri con mezzo centimetro di spessore), gustosissimo caciocavallo di Castelfranco in Miscano (prodotto da Antonio Ricciardi, allevatore che produce formaggio esclusivamente dai circa venti capi di proprietà, in prevalenza pezzata rossa, ma anche marchigiana molto richiesta per le carni) e un superlativo pecorino laticauda (prodotto da Gerardo D’Oto in quel di Buonalbergo, alle porte del Fortore).
Un commento
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sempre molto belle le iniziative di Erasmo. :-D