Una piccola e umile lezione di marketing agli uffici marketing del cibo e del vino
Ho conosciuto decine di uffici marketing e devo dire che la loro qualità si sta notevolmente abbassando sino a diventare un freno e non un turbo nel motore delle aziende che li assumono.
Naturalmente ogni affermazione apodittica ha le sue eccezioni, ma in linea di principio notiamo una maggiore fantasia e creatività dei commerciali che stanno in trincea rispetto ai polli di batteria usciti dai master in webinair e che pensano di vendere la salsiccia cruda di Bra usando i protocolli delle pile elettriche, delle auto, o dei water.
Intendiamoci, ogni settore ha la sua specificità e la prima cosa che dovrebbe fare chi viene messo a dirigere un ufficio marketing dovrebbe essere quella di studiare il settore, approfondirlo, studiare le mosse dei competitor, magari dare uno sguardo come si muovono all’estero e poi decidere le mosse da fare.
Per l’enogastronomia questo processo è abbastanza lungo e complicato in un paese come l’Italia dove, fatta eccezione per Milano, le mode fanno molta fatica ad entrare ma meno che in provincia non sia santificate dalla televisione.
Quel che abbiamo nota è che molti interpretano questo ruolo da vecchi routinier: quanto è il budget quest’anno? Lo dividiamo fra quello che c’è.
A margine notiamo che i budget del marketing in genere sono i primi ad essere tagliati in caso di crisi, ossia si riducono le risorse della comunicazione proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Ma questo in genere è un errore della proprietà o dei fondi che controllano la società.
Ma l’errore più clamoroso è spesso nella scelta dei testimonial perchè viene fatta a prescindere dall’obiettivo.
Infatti, prima di decidere di pagare un bel pacco di soldi a un ambassador come si dice adesso, sarebbe bene riflettere sugli obiettivi.
Il prodotto va sulla vendita al dettaglio, direttamente al consumatore (mi perdonerete se non uso molti i termini anglofoni ma almeno su questo sono in linea con il governo)? Allora si, serve un tetsimonial famoso, possibilmnente nell’enogastronomia anche autorevole e riconosciuto: bene Cracco sulle patatatine (ossia, in questo caso, meglio per le patatine che per Cracco), benissimo Cannavacciuolo per la Voiello. Ossia personaggi noti oltre la ristretta cerchia del circoletto gastronomico italiano.
Il prodotto va ai colleghi del testimonial? Bene, l’errore che potete fare, e che molti fanno, è proprio prendere una personalità dall’ambiente in cui vorrete vendere il prodotto perché potete stare certi che per quanto bravo, decorato, omaggiato dalla critica e dal pubblico possa essere il testimonial in questione in un paese come l’Italia dove ciascuno è più bravo dell’allenatore della nazionale avrete esattamente l’effetto opposto fra i suoi colleghi. Per quale motivo? Semplice, perchè si tratta di un lavoro individualista dove nessuno si sente inferiore ad alcuno, fatte rarissime eccesioni di umiltà professata e palesata e che comunque non spingerà certo all’acquisto perchè il collega designato come testimonial lo consiglia.
Non lo sapevi?
e mo’ ‘o ssai!
Il mio modesto consiglio?
Prendere qualcuno di mestiere riconosciuto e stimato che non ha un proprio locale. Ma per farlo ci vuole, appunto, uno studio prodondo per capire chi sono coloro che con il loro esempio davvero influenzano i comportamenti dei colleghi perchè non stanno mai in superfice o comunque non sono visibili ad un occhio che è guidato da protocolli astratti o validi per altri srttori.
Uno studio? Tempo da perdere? Giammai, meglio i protolli insegnati all’ultimo master, tanti paga la proprietà….