Un bicchiere per due / Sicilia Igt SP68 2011, Arianna Occhipinti
di Fabrizio Scarpato
Uscirono di corsa dal Guggenheim e si diressero verso Midtown lungo la 5th Avenue. D’altra parte correre per loro era quasi normale, anzi proprio correndo intorno al JKO Reservoir di Central Park si erano conosciute, o meglio scontrate, visto che una di loro procedeva colpevolmente in senso orario. La ragazza bionda chiese scusa in inglese ma con un accento che alla ragazza mora ricordava quello del nonno siciliano. Risero e divennero amiche.
Si erano regalate quella giornata di festa per parlare un po’ e respirare New York con quello stato d’animo scanzonato e onnipotente che invariabilmente ti prende solo a guardare i grattacieli riflessi su un taxi giallo. La ragazza mora era canadese e seguiva un Master di violoncello alla Juilliard, la ragazza bionda si trovava nella Grande Mela per uno stage di marketing da Dolce & Gabbana, ed era italiana, siciliana per la precisione. Avevano tante cose da raccontarsi e facilmente, senza affanno, si ritrovarono lontano, dalle parti del Greenwich Village, in un ristorante luminoso, gestito da donne, cuoca donna e carta dei vini declinata solo al femminile.Visto che avevano percorso tanta strada per ritrovarsi a quel tavolo scelsero un vino italiano, siciliano, che portava il nome di una strada, una sigla: SP68, di Arianna Occhipinti.
La luce che filtrava dalla grande vetrata su Barrow Street attraversava il vino con facilità, scomponendolo, sfaccettandolo in infinite variazioni di rosso, ora dense, ora trasparenti, dal rosa dell’unghia, al porpora, fino al rubino venoso al centro del bicchiere. Ma erano stati quei profumi pungenti di spezie e liquirizia, ingentiliti da petali di rosa essiccata e drupe di lampone che avevano incuriosito le ragazze, disponendole al confronto. Fu in quel momento che Marie, la musicista, tirò fuori un segnalibro che aveva acquistato al Museo: raffigurava alcuni quadri di Mark Rothko, ma lei col dito ne indicò uno in particolare, in cui una nube attraversata da infinite pennellate di rosso e di viola, galleggiava, fino ad insidiarla, su una nube analoga, in cui il pennello aveva indugiato tra ipnotiche sfumature di giallo e colature di arancione. “Noi siamo qui” disse, puntando l’unghia senza smalto sull’incerta riga nera che a fatica separava le due nubi colorate.
Giovanna, la ragazza bionda, ricordava bene quel quadro e fu come risucchiata in quella screziatura nera: allora bevve un lungo sorso di vino, gli occhi rapiti dal gesto dell’amica, la mente irretita dai profumi della sua terra. Perché quel vino era perentorio, asciutto e immediato, come portato dal vento. C’erano sale e saliva, una leggera, composta ruvidezza ingentilita da esiti di fragole e lamponi, più facilmente un morso di quelle mele caramellate di rosso che si trovano alle feste di paese. Ma era bello il finale, così sincero da farsi ricordare con altri sorsi, divenuti necessari: entravano erbe aromatiche, e poi certe radici amare, e poi il mirto, e ancora il lampone, e poi la china, il pepe e il cioccolato amaro, forse il sapore delle carrube al forno che spesso le era capitato di mangiare. Su tutto, il caldo del sole, mite e piacevole. Rivedendo il quadro di Rothko, ripensò a quell’immagine di Arianna che usciva dalla bocca inferiore di un tino d’acciao: prima gli stivali di gomma, poi lei. Come se nascesse dal vino, seppure dai piedi, che spesso è segno di carattere. Il rosso e il viola, il giallo e l’arancio. Il vino scuro e la luce, il sole. Una sorta di stato nascente.
Marie posò il bicchiere e ricordò all’amica quanto avevano appreso dall’audioguida, e cioè che quel quadro era un inizio, una trasformazione, anzi ricordava quell’esempio intrigante del passaggio di stato dell’acqua in vapore. L’acqua prima diventa calda, poi rovente, ma solo a cento gradi diverrà vapore, cioè altro. Rothko si liberava di ogni condizionamento, di ogni sapere e proprio come l’acqua, solo in quel momento, con quel quadro, diventava vapore, cioè se stesso, finalmente. E usa il magenta e il cremisi, il giallo e l’arancio, il porpora e l’ocra: colori emozionali, passionali e onirici. Non c’è posto per il verde, e nemmeno per il blu che sono come la pentola o il fornello: mai saranno vapore. La realtà abdica all’immaginazione, le parole perdono peso: solo fascinazione, istinto pulsante, sensibilità. Come per una musica o una poesia. “Come per l’amore”. Fu in quell’attimo, mentre pronunciava queste parole, che Marie allungò la mano a sfiorare dolcemente le dita di Giovanna.
La ragazza bionda ritrasse timidamente la sua mano e bevve ancora, mescolando il rossore delle sue guance con quello del bicchiere. Trovò un appiglio guardando ancora quella riga nera frastagliata che spezzava i volumi colorati del quadro. Aveva pensato agli occhi neri di Arianna e a remote tracce vulcaniche, aveva pensato all’asfalto nero della Strada Provinciale 68, persino alla stessa bottiglia che aveva di fronte, nera come la pece. Invece si convinse che quella spatolata era un frammento inconscio, un residuo di realtà, una sorta di ostacolo all’esplosione emotiva, l’ultimo attimo prima della trasformazione del liquido in vapore. Rothko non avrebbe mai più interposto una linea nera tra i colori delle sue grandi tele: il nero e il grigio sarebbero ricomparsi solo molto più tardi, invasivi e immobili, presa di distanza definitiva dalla vita.
Giovanna realizzò che quel quadro e quel vino si assomigliavano: raccontavano di una aspirazione, di una scelta, del coraggio necessario per trovare se stessi. Quel quadro e quel vino avevano in comune un desiderio di libertà. Allora distese la mano, tremante, in cerca di quella di Marie.
Melania Mazzucco / Il Museo del Mondo: Tutti i colori di Rothko/ RCult, La Repubblica