Tenute Silvio Nardi: il Brunello di Montalcino e I.C.AR.E, il progetto per trasformare i rifugiati in viticoltori
di Raffaele Mosca
Partiamo da una bella storia legata a tutto ciò che sta accadendo nel mondo: un’iniziativa messa in campo dall’azienda in questione per far fronte alla più grande crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale. Tenute Silvio Nardi ha da poco aderito ad I.C.A.R.E, progetto introdotto a Montalcino con la collaborazione della diocesi di Siena. Il progetto consiste nell’integrazione di rifugiati da ogni paese ed ogni guerra in un’azienda produttiva, dove impareranno un mestiere e riceveranno vitto, alloggio e un’adeguata remunerazione.
La prima famiglia ucraina è stata già accolta nella tenuta: lavorerà in vigna insieme ad altre persone di varie nazionalità. E’ una piccola cosa se rapportata alle dimensioni colossali dell’emergenza, ma vale molto di più di mille piani di sostenibilità aziendale sventolati da certe grosse realtà nella speranza di ottenere un ritorno d’immagine.
Tutto questo dice già di qualcosa sul temperamento dell’iron lady del Brunello con la quale abbiamo avuto il piacere di pranzare da Acquolina a Roma: Emilia Nardi, erede di una famiglia di imprenditori umbro-toscani che hanno cominciato a imbottigliare Brunello nel 1954, quando le aziende che non fossero cascine mezzadrili in zona si contavano sulle dita di una mano. Ultima di otto fratelli, Emilia si é trasferita dalla natia Umbria a Montalcino per prendere le redini di una realtà composta da due poderi che rappresentano le anime opposte e contrastanti del Brunello. Il primo, Manachiara, si trova nel cuore produttivo della DOCG, subito a sud del paese, tra tenute storiche come il Greppo dei Biondi Santi e la Fattoria dei Barbi. L’altro, invece, ricade nel quadrante “oscuro” della denominazione: quello dove il bosco è ancora protagonista del paesaggio. Una zona a Nord-ovest del borgo, che, fino a qualche anno, era considerata troppo fredda per la produzione di grandi vini e, che, oggi, invece, dà risultati estremamente interessanti. Da queste due proprietà vengono fuori un Chianti Colli Senesi, un Brunello “di sintesi” – tra i migliori con una tiratura superiore alle 50.000 bottiglie – e due Cru. Il Poggio Doria 2017, da vigna all’estremo nord-ovest, raggiungibile solo in jeep, l’avevamo assaggiato in cantina e ci era sembrato più dinamico, più sobrio ed austero, di tanti altri vini prodotti nell’annata più torrida dell’ultimo decennio.
In quest’occasione, invece, abbiamo riprovato il Rosso di Montalcino, troppo giovane allora per essere giudicato. Ha avuto una bella parabola evolutiva ed oggi ricalca a pieno i connotati del vino di Montalcino 3.0: gioca sul frutto fresco e fragrante, sui fiori rossi, su di una freschezza a tratti vegetale e a tratti balsamica che lo rende immediato ed irresistibilmente beverino. Il Rosso di Montalcino ha patito per anni una certa crisi d’identità.
Oggi pare che finalmente i produttori abbiano cominciato a puntare in massa su questo stile che fa della scorrevolezza il suo punto di forza.
Tutt’altra storia i Brunello “base” – definizione ingrata, ad essere onesti – assaggiati tete à tete: il 2016 è ancora un adolescente rabbioso, con una verve acida e tannica travolgente e un potenziale notevole messo in evidenza dal finale ematico-balsamico di rara finezza; il 2017 è molto più immediato e “caliente”: gioca sulla marasca, sul tabacco da pipa e sulle spezie scure. Non durerà trent’anni, ma già adesso regala soddisfazioni anche in abbinamento con piatti di media importanza come i tortelli, zucca, anice stellato e tartufo nero dello chef Daniele Lippi di Acquolina.
Poi c’è il Manachiara, nella fortunata versione 2015. Servito da magnum, ha tirato fuori un naso caleidoscopico: liquirizia e chinotto, alloro e carne grigliata, mora e gelso, viola appassita e un soffio da scatola da sigari. La ‘15 è annata un po’ più precoce della ‘16 ed offre già distensione ed equilibrio, potenza tannica ben calibrata e un finale ampio su toni balsamici e boschivi. Molto diverso il Poggio Doria 2012, prima versione di questo Cru affinato in legni più piccoli – tonneau di rovere francese per l’esattezza – in modo tale da smussarne il tannino fitto e l’acidità sempre in lizza. Caratteristiche, queste, che sono ancora evidenti nel ‘12, abbastanza disteso al naso – funghi porcini, erbe officinali, tabacco kentucky – ma vivo e reattivo in bocca. Acquolina è principalmente un ristorante di pesce e Daniele ha pensato bene di abbinarlo ad un baccalà con spuma di patate affumicate al tè nero. Accoppiata rischiosa, ma abbastanza centrata, perché il Poggio Doria non è tra i Brunelli più carichi e massici, anzi ha una silhouette piuttosto snella, soprattutto se stappato a distanza di anni dalla vendemmia, quando il tannino inizialmente scalpitante si è assestato.
CONCLUSIONI
In fin dei conti, Tenuta Silvio Nardi è tra le poche aziende di Montalcino che riescono a mettere insieme la storia della denominazione con i nuovi orizzonti che i produttori saranno costretti ad esplorare per fare fronte al cambiamento climatico. E poi ha la fortuna di essere guidata da un figura con un visione che va ben oltre le semplici logiche di mercato. Un grande personaggio di un altro areale diceva a questo proposito: “puoi essere sostenibile in campagna quanto ti pare, ma se non fai nulla per le persone, per i tuoi dipendenti o per la comunità, non puoi definirti produttore etico”. Emilia segue questo principio alla lettera e, con le sue iniziative solidali, ci dà un motivo in più per interessarci alla sua realtà e ai suoi vini.