Stefano Caffarri. Sussidiario minimo delle Pietanze del Regno A.D. 2010, i piatti italiani da portare nel 2011
Affetto da inguaribile nomadismo gastronomico, consumo quintali di nerofumo sulle autostrade italiane, confido sul mio “disco duro” per conservare vividi i ricordi. E’ una modalità differente della memoria, quella che ci offre la fredda ma confortevole tennologia digitale: immagini e parole facili da archiviare e semplici da richiamare, alla bisogna.
Sarà forse poco più di un vezzo da amanuense, quello di scrivere con la stilo sulla piccola agendina: ma mi basta guardare la grafìa e i segnetti grafici sui margini per ridare vita a un’emozione. Punti esclamativi, cerchietti, asterischi, sottolineature, tremolii del tratto eloquenti quanto un’immagine a mille pixel per pollice.
Ripercorrendo le paginette a ritroso, come fanno gli arabi, trovo lo spettacolare risotto confettura di limone a vaniglia di Francesco Sposìto della Taverna Estia di Busciano, sapori sovrapposti come pennellate d’acquerello e spruzzi acrilici: e poi un risotto al Sud, un’epifania che gonfia il cuore di furore italico. O la Tiella del Bacco di Bari, tutta la creatività che occorre per rifare oggi, e in modo contemporaneo, un piatto popolare secentesco.
Struggenti, c’è scritto di fianco ai ravioli “cacio e pepe” ripieni di latte di capra appena cagliato di Silvio Salmoiraghi all’Acquerello di Fagnano Olona, travolgente in fondo alla nota della lingua in salsa verde e cren di Alberto Russo dell’elegante e sottovalutatissimo Dolce Stil Novo di Venaria Reale a Torino.
Non dimentico una archeologica “bomba di riso” pescata da Gianni, una trattoria dimenticata nel medio Appennino reggiano, e la poderosa zuppa inglese del Canossa, dalle parti mie: e neppure i “tortellini alla panna” che ci vuole solo l’allure di Massimo Bottura per riesumare dagli anni Settanta.
A Roma più di un battito di cuore per le insuperabili animelle di Cristina Bowerman di Glass Hostaria a Trastevere, numero uno al mondo sul tema, e le quaglie di Riccardo Di Giacinto, ai Parioli con il suo All’Oro.
Di lago, il tortino di lavarello, tartufo, patate, caviale di trota e funghi: perfetta sintesi di fango e d’acqua dolce di Leandro Lupi alla Vecchia Malcesine, e la magìa di mare di Cristiano Andreini del locale omonimo ad Alghero, i ravioli di pomidoro e crostacei: nitore cristallino e linearità che si fa storia.
Un bel testa coda in mezzo all’agendina: l’incredibile insalatina di lumache e verdure croccanti di Mattias Peri nel suo Chalet di Livigno, contrapposto al piatto più pop di Pino Cuttaia a Licata: “Sapori di sale… sapori di mare”. Delizia, leggo: una parola consueta, usata, quasi consunta per una creazione che, riprendo dagli appunti, unisce “tagliatelle di calamari (non ai calamari), con zucchine, poi le vongole succose, i dolci ricci di mare…sopra mandorle rese in crema. Artifizio mirabile”.
Penso che sia una gran fortuna, avere un mestiere che ti porta dalle Valli Brembane alle Dolomiti Lucane, in un amen: solo così posso ricordare le ubriacanti tagliatelle di prezzemolo, pomodori del Vesuvio (un altro testa coda?) gelatina di mango e cozze bouchet di Martin Obermarzoner di Jasmin a Chiusa e la trippa fritta con la zuppetta piccante di cozze di Marianna Vitale, al Sud di Quarto.
Molti altri ne ho dimenticati, e per il venti-undici, vedremo.
Un commento
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Sorvolo sui tortellini alla panna: dopo aver assaggiato quelli alla crema di parmigiano non oso pensare alla panna filologica e densa, presa per affioramento e riversata sui tortellini. Pura gioia, perché la gioia è la caratteristica principale della cucina di Bottura.
La stessa che mi procura la zuppa inglese, e il solo nominarla tra i piatti dell’anno testimonia come a tavola non devono esistere sovrastrutture, in nessun senso. Ricordavo quella di Anceschi a Modena, affettabile e incorniciata di alchermes, sarei curioso di vedere questa del Canossa: pellegrinaggio necessario, dopo lo sturbo dello zabaione alle visciole della Capelli.
I testa coda sono affascinanti ma temo che spesso vadano a sbattere: ho l’impressione che ognuno porti con sè i suoi sapori, gli odori e gli ingredienti speziati con cui è cresciuto. Quando, con la mia consueta goffaggine, ho detto a Obermarzoner che faceva cucina di territorio, lui mi ha guardato con quella comprensione che si riserva ai fuori di testa: in realtà non è la materia prima che fa territorio, ma la cultura , l’abitudine, il condimento, il senso di calore o freschezza, la voglia di dolce o di salato che il clima ha sempre condizionato. Puoi fare tutto il pesce che vuoi ma sarà sempre pesce tirolese (buonissimo peraltro) così come uno stinco di maiale irpino non sarà uguale a quello altoatesino. L’acqua calda non c’è tra i migliori piatti dell’anno?