Sannio, il segreto della Coda di Volpe
È il meno conosciuto dal grande pubblico dei consumatori. Ma proprio per questo può riservare quelle soprese di cui il mercato ha continuamente bisogno per spettacolizzarsi e crescere. Parliamo del vitigno Coda di volpe che, non dovete certamente fare un grande sforzo di immaginazione, prende il nome dalla forma lunga e affusolata della pigna matura, oltre che dal colore generalmente carico del vino, simile, appunto, a quello del piccolo predatore terrore di quei contadini che ancora posseggono un pollaio.
Non solo Falanghina, la più richiesta negli ultimi anni in Campania. E nemmeno solo vini pregiati come l’Asprinio, il Greco di Tufo, il Fiano, la Biancolella. La terra dei vulcani spenti è ancora in grado di presentare altri colpi. La storia della Coda di volpe non è misteriosa ma semplice: nessuno sino al 1985 l’aveva etichettata perché serviva come uva da taglio soprattutto per il Greco di Tufo e il Fiano.
In questo modo i produttori dell’epoca risolvevano uno dei problemi più seri dei grandi vini irpini, l’elevato tasso di acidità dovuto al terreno. Un difetto, considerato tale non solo dagli esperti, ché questo alla fine poco conta, ma anche dai consumatori. Così, in quegli anni in cui il prodotto campano era praticatamente fuori dal circuito che conta (salvo pochissime eccezioni), alcuni pioneri appassionati facevano esperimenti. Leonardo Mustilli a Sant’Agata dei Goti puntava sulla Falanghina (fu il primo a imbottigliarla e a vinificarla monovitigno). Sempre nel Sannio, a Ponte, vicino Solopaca, nella valle coperta da chilometri e chilometri di vigneti che ha costituito una sorta di barriera corallina contro l’invasione del vino pugliese, Domenico Ocone, titolare di una delle prime aziende regionali (fondata nel 1910), era con Luigi Pastore alla ricerca di nuovi vitigni. «La scoperta delle potenzialità della Coda di volpe – ci racconta Mimmo – avvenne quasi per caso. Era il 1986 quando ne comprammo una partita dai monaci di Montevergine che ci sconsigliarono vivamente di vinificarla da sola. Loro lo avevano già fatto con pessimi risultati: la bottiglia aveva un colore spento, l’assenza quasi totale di acidità privava di tono il bicchiere. Ma noi avevamo una idea fissa: se questo vitigno era aggiunto al Greco di Tufo e al Fiano doveva avere necessariamente delle potenzialità inespresse da sfruttare. Fu così che pagammo i monaci costringendoli però ad anticipare la vendemmia di un mese: anziché iniziare seguendo la tradizione a San Gerardo (15 ottobre) farla alla metà settembre. Ci fu un vivace battibecco, ma alla fine seguirono le nostre istruzioni. E i risultati ci hanno dato ragione». Gli accorgimenti seguiti dopo sono stati i soliti: potatura delle vigne per ottenere una bassa resa per ettaro, vinificazione in purezza con pressatura soffice usando tecnologia moderna, affinamento in bottiglia. Nacque così un vino ottimo, che ha davvero poco da invidiare agli altri bianchi campani. Ocone fu imitato qualche anno dopo da Antonio Troisi, fondatore della Vadiaperti a Montefredane in provincia di Avellino. Una azienda che, dopo la scomparsa del professore del Fiano avvenuta un anno fa, oggi vede al timone il figlio Raffaele. Dopo alcune annate Tonino ebbe una grande soddisfazione: la vendemmia 1996 di Coda di volpe ottenne i due bicchieri nella guida Arcigola Slow Food-Gambero Rosso. Mai questo vitigno era arrivato così in alto. Ma forse l’azienda che immediatamente puntato senza reticenze sulla Coda di volpe riservandole la prima linea è De Lucia, fondata dai cugini Enrico, Cosimo e ancora Enrico pochi anni fa. Sono loro che l’hanno fatto conoscere a Roma. Da qualche tempo il winemaker Riccardo Cotarella sta dando consigli a questi ragazzi (strepitoso il loro Aglianico) contribuendo soprattutto ad ammorbidire il prodotto sin dalle prime battute. Per i consumatori, oltre alla sopresa di scoprire un altro vitigno per innaffiare la cucina della Costa, il vantaggio di un’ottimo rapporto tra la qualità e il prezzo. Un equilibrio, riteniamo, destinato a durare ancora per qualche anno. Perché allora non approfittarne in questo mese di calura che ci attende?
Il Mattino, luglio 1999