Invecchiato IGP | Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto


Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto

Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto

di Stefano Tesi

Per fortuna non sono il solo a scoprire di avere in cantina roba di cui nemmeno immaginavo l’esistenza. Ed è consolante scoprire che, esattamente come succede a te, nemmeno l’amico che ti invita a cena abbia la più pallida idea delle vie attraverso le quali quella bottiglia sia capitata nella sua, ma solo vaghissimi e sfrangiati ricordi di circostanze molto dilatate, probabilmente inattendibili. L cosa divertente allora – a parte bersela, si capisce – è provare in due o tre commensali con parecchio passato in comune a ricostruire il perché e il percome di quella presenza, risalendo nel tempo a storie, aneddoti, fatti e persone, degustazioni sparse, cesti natalizi e la colpevole sinecura di chi, sguazzando spesso tra troppe etichette, a volte si perde, o sottovaluta o semplicemente dimentica ciò che ha in mano.

Nelle more di questi amarcord potatorii, ovviamente, il vino cala nei bicchieri e suscita le più svariate impressioni.

Questo Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto è passato esattamente sotto le forche caudine or ora descritte.

Non sto a raccontare l’arcinota storia dell’azienda, una delle più celebri e celebrate di Montalcino. Mi limito a dire che la bottiglia in parola nacque sotto l’egida del compianto e “gambelliano” Piero Palmucci, due anni prima che la cedesse a Collemassari di Claudio Tipa.

La domanda fondamentale che molti si pongono davanti a un Rosso di Montalcino di sedici anni è: avrà retto il tempo? E sarà nato per reggerlo?

Io non ho risposte certe, so solo, per un briciolo di esperienza e di assaggi che, sì, la vera o presunta “spalla” del Brunello (per
carità non entriamo nel dibattito dei rossi a volte più brunelliani dei brunelli) è in grado eccome di scavalcare i decenni. E che comunque è quel tipo di vino capace di dare le classiche sorprese da longevità inattesa.

Non ho assistito personalmente allo stappamento della bottiglia, ma il mio ospite – degustatore di lungo corso – mi ha assicurato tappo integro, adeguato anticipo e giusta ossigenazione.

L’assaggio gli ha dato ragione: se il colore è un rubino di media intensità, con prevedibile unghia aranciata, il naso ci ha sorpreso per pienezza e pulizia, un’asciuttezza penetrante e una tipicità di Sangiovese del tutto inconfondibile, senza deviazioni o tracce di decadimento. Stesse sensazioni al palato: pienezza, pulizia, freschezza e una profondità quasi neghittosa che mescola ampiezza e agilità, in sostanza invogliando alla ribevuta.

Infatti ne abbiamo ribevuto tanto.

Peccato non ci sia servito a ricostruire la storia della bottiglia, ma ce ne siamo fatti una ragione.

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