Romania, ospitalità e tradizione contadina fuori e dentro il piatto
di Marco Bellentani
La Romania non convenzionale, passa per il profondo est del paese diviso ancora oggi dai discorsi radiofonici sul “era meglio quando c’era Ceaușescu ” e il “Ceaușescu ha distrutto la Romania”. Ad atterrare a Bacau pare che questa seconda campana non abbia torto: le chiese ortodosse troneggiano nella bruttura cosmica di palazzoni dell’era comunista, stadi fatiscenti e grandi spazi deserti dove spicca l’unica vestigia della risposta consumista: il modernissimo centro commerciale. In mezzo a queste contraddizioni, emerge la gente: di un’ospitalità emozionante. Contadini che portano il carro di legno a cavallo, la vecchietta chiede un passaggio con le fascine di mais, una mucca pascola in un’aiuola della città.
Per chi si vuol spingere in una Romania che fuoriesca da Bucarest e da luoghi codificati dove comunque sarà sempre e solo la tradizione a farla da padrone, il consiglio è quello di abbandonare i luoghi affollati e perdersi per le vie montane che separano le varie città, partendo però dai mercati centrali. E li che furoreggia l’anima rumena, dove i pesticidi e i veleni sono “naturalmente” snobbati perché costano troppo e in una nazione la cui metà del territorio è coltivato questo è un dato non da poco. Dalle verdure alla stupenda frutta (da un contadino abbiamo assaggiato la prugna più buona della vita), fino ai formaggi freschi, soprattutto di capra, animale dominante anche sulle tavole. La dieta rumena purtroppo non segue questo trend: grasso, maiale e grasso ancora. A salvarci sono dunque le Ciorba, sorta di brodo estratto da carne e verdure realizzato in tutte le maniere. Di anatra, fagioli o verdure, ed ancora di pollo, vitello e così via. Immancabilmente griffate con la panna acida. Semplici, corroboranti. Spesso buone. Tipica, non esistendo pasta (se non all’italiana, ovvio, ndr), è la Mamaliga (polenta) anche questa sovente affogata in quintalate di formaggio e panna acida. Binomio che accompagna anche le seconde portate. Il Pastrami di pecora qui vive di autenticità contadina, ma ancora Mamaliga e panna acida servono ad accompagnare i piatti di caccia mista, cervo, cinghiale, maiale e compagnia bella. Tutti, sorta di spezzatini simili ai nostri dove a stonare è, a volte, l’uso eccessivo della cannella che manda all’aria i nostri piani.
Ancora Mamaliga come fondo delle foglie di vite o verza ripiene di riso e carne (ottime) e tanta carne. Polpette, soprattutto di maiale e grigliate miste in cui spesso spicca anche la Trota che mangiata tra le sperdute e stupende foreste della Transilvania acquista tutto un altro sapore, così come il resto della tradizione rumena. Il capitolo dell’incontaminato territorio montano apre alcune considerazioni: fiumi e laghi stupendi e intrinsecamente ricchi di una cucina palustre ancora non sviluppata (proposta sempre e solo la trota) e spesso ridotta ad improbabili Carassi o Carpe, fungaroli eroici con stupendi funghi (se se ne potesse controllare la filiera sarebbero davvero così inferiori ai nostri?), ancora frutti divini e caccia. Qui sta la Romania. Il pane lasciamolo fare ad altri: il grande pane di patate del Lacul Rosu (5 kg a pane) è un obbrobrio di tecnica fornaia oltre che sbilanciato nelle dosi. Meglio perdersi tra le fattorie tra frutti, miele, noci che qui vengono consumate fresche e liquori vari. Il vino contadino rumeno è un’avventura che va vissuta con coraggio.
Giusto nel settore vino, siamo – come detto – per lo più a livello “contadino”, ma ci sono diverse ditte che oltre a promuovere versioni internazionali di dubbio gusto, ci riportano a memoria un antico vitigno rumeno: il Feteasca Neagra, spesso in blend, nei vini più costosi, col Cabernet Sauvignon ma meglio apprezzabile nelle sue versioni fresche, dal passaggio in acciaio. Un punto di partenza a livello enologico per promuovere un vitigno autoctono non superlativo, ma che può togliere alcune soddisfazioni ai produttori più attenti e sinceri.
Si conclude col dolce: lo streetfood Kurtos, rotolo di pasta dolce cotto in apposite griglie con lo zucchero che caramellizza o il famoso Papanash – pseudo-cheese cake ante litteram, con frutti di bosco e panna acida. Qui la differenza la fa il pasticcere.
La sensazione è che il perdersi tra le fattorie rumene, transilvane e moldave sia più fruttuoso che andare nei ristoranti (comunque e sempre davvero poco costosi), sai mai che ti capiti un vitello da squartare (per buona grazia ed intervento del nostro compagno di viaggio Gaio Giannelli, chef & butcher del Pozzo di Bugia a Querceta (Lucca), mettere a dimora per l’inverno, da cui ricavare al forno a legna uno spezzatino espresso di una bestia 100% brada. Sta qui il possibile futuro di una cucina rumena dai canoni semplicissimi, rurali, da sviluppare oltre il placido sorriso di ospitali contadini e buona gente che fa della convivialità una ragione di vita.