Roberto De Simone: le donne, il cibo e la necessità della musica a Napoli
di Fabrizio Scarpato
“Ma chi è quella lì?” non potevi non notarla: ti veniva incontro a braccia aperte, cantando e muovendo le mani. ‘Na Maronna, dagli occhi neri furenti, densi e profondi, lucenti di tragica dignità. La potevi quasi toccare mentre passava sulla pedana, una delle pedane sotto il tendone da circo, per terra una piazza. “Quella lì” era Lina Sastri, nel Masaniello.
In mezzo a tamurriate nere e danze dionisiache, c’era una cantata in cui le voci si alzavano lentamente all’unisono in una sorta di madrigale lento e cadenzato, ad aprire i polmoni, la gola e il cuore subito dopo l’intro in falsetto acido. Tra Giovanni Mauriello e Peppe Barra c’era la potenza, calda e sfrontata, della voce di Fausta Vetere.
Loro erano parte della Nuova Compagnia di Canto Popolare , la cantata era “La morte de mariteto”.
Sudavano le lavandaie, tanta era la foga e l’ossessione: il secondo canto ne la Gatta Cenerentola è quanto di più erotico si sia potuto vedere in teatro, tra stordimenti, mani che toccano, che battono, che asciugano seni prosperosi non trattenuti sotto le vesti bianche. La tamorra cede il passo al ritmo monotono e incalzante dei fiati, in un delirio dodecafonico. Nel vortice straniante e conclusivo, immensi, i capelli ricci al vento di Isa Danieli.
Deh quanto sei bella tu…
Ma nun la pozz’asciare
accussì bella comm’a te
Cosa unisce queste donne napoletane oltre alla forza della loro bellezza e alla bellezza della loro forza? Le unisce il genio visionario e terragno del maestro Roberto De Simone.
Cosa resta dell’intensità di queste donne nelle comparse folkloristiche che si limitano a schiaffeggiare un tamburo e dimenare le braccia tra riccioli neri e lunghe gonnellone esoticamente colorate? Non resta niente: feste di piazza ormai ridotte a larve senza retroterra, chincaglierie culturali, scimmiottamenti dell’aristocratica naturalezza, della fiera austerità di quelle cantanti. Forzature lontane dal senso di collettività che impastava quella musica, mescolandola con l’appartenenza, con la religiosità e con il rito, sgomitamenti ignari che nella “tradizione autentica un’ esecuzione musicale non ha niente a che vedere con l’esibizione, che la devozione non lascia spazio al compiacimento, che per partecipare a una festa bisogna esser coro e non protagonisti”. Negli occhi e nelle voce di quelle donne, come in tutte le cantanti meno conosciute cui si ispiravano, c’era religiosità e ritualità: perdersi dentro un canto, dentro una danza come se fosse l’ultima, l’unico canto o danza possibile: momenti di musica intrisi di verità, autentici, zuppi di passione. Il canto e la danza come momento panico.
E la passione richiede precisione, nitore, attenzione e rigore: senza nulla in cambio, perché è un’esigenza, è necessità di cogliere il senso delle cose e dei gesti, sia che si prepari una tazza di tè, che si canti una fronna o si indossi “el traje de luces” prima di affrontare il toro. Religiosità e rito.
Dopo oltre trent’anni Roberto De Simone pubblica nuovamente, ampliata di nuove testimonianze e organizzata lungo il corso di un anno solare, la raccolta di canti della tradizione in Campania: chiude un cerchio, tira il fiato davanti al lavoro di una vita, da consegnare al futuro, se il futuro vorrà e potrà.
C’è molta disillusione nelle parole del Maestro: l’immensa mole di documentazione musicale è diventata celebrazione dell’assenza. Assenza delle istituzioni, assenza degli stessi cantori protagonisti, oramai defunti, assenza delle stesse feste rituali, assenza di valori, del senso del tempo, assenza di passato e di futuro. Le nuove generazioni sono state private del senso del futuro: colpa della televisione e dei modelli che essa propone; un’ anestetizzazione delle coscienze che, inebetite, riflettono se stesse nelle vetrine “a vita bassa” del centro. Allo stesso modo è venuta meno la fiducia nel passato e nella tradizione, sono state dimenticate quelle espressioni musicali che rappresentavano un’ identità, un’anima culturale per le genti campane, “un’anima che viveva in accordo con la natura, nel rispetto degli alberi, delle acque e delle lucciole”. Cose lontane dalla realtà contemporanea.
E’ scomparso un mondo, fatto di semplicità e verità, in cui musica e parola si fondevano nel sentimento comune, nei passaggi e nei gesti ripetuti per mille anni, nel senso del nascere, fare l’amore, morire, e anche gioire, maledire, faticare. Sentimenti a tutti comprensibili ma ormai annientati, in nome di tutto, in nome di niente.
E’ curioso come anche il cibo accompagni quei momenti: in fondo già il concetto di festa, sia religiosa che pagana, richiama il cibo. Salterelli nuziali, storie di sesso, canti di vendemmia, canti di lavoro, di raccolta. Accade ancora spesso nelle provincia italiana, di mangiare anche dopo i funerali. Racconta De Simone che molte registrazioni vennero fatte in studio nei giorni di festa affinché gli esecutori “sentissero davvero nel profondo il momento del rito, senza forzature intellettuali. Ebbene, spesso davanti ai mixer i canti diventavano danze collettive, si mangiava pane e vino, si ricreava la festa e il banchetto con una coreutica esplicita. Se le paranze erano più numerose le si raggiungeva per farle cantare sui luoghi o sui carri della festa, o in ristoranti imbanchettati tra parolacce, doppi sensi e risate”, in un continuo capovolgimento dei ruoli, sintomo di partecipazione, divertimento, passione e naturalezza, se è vero che, come racconta Lina Sastri, anche sotto il tendone del Masaniello, la gente si spostava tra un palco e l’altro, spesso con il pacchetto del mangiare in mano, un panino, un pezzo di pizza. E mangiavano, mentre danzavano e cantavano. Cucinare in fondo, non è altro che una serie di passaggi rituali, il cibarsi e il cibo stesso hanno molto a che fare col sacro, col religioso: mezzi aggreganti, istituzioni sociali, valori e significati da condividere. Cultura.
Ma non c’è nostalgia, non ripassa la favola infeltrita del come eravamo, né l’arcadia del buon selvaggio. Piuttosto si alza la testa, si cerca di guardare oltre. Gino Castaldo propone quei ritmi e quei canti a tutti i musicisti che vogliano cimentarsi anche col rock e il rap; lo stesso De Simone li avvicina alle forme del jazz moderno: c’è sì la tradizione, ma si improvvisa e lo si può fare solo quando un mondo, quel mondo, lo conosci profondamente,“ti appartiene totalmente, fin dentro le viscere” tanto da esprimerne l’interiorità “attraverso esasperate emissioni vocali spesso prive di una perfetta espressione tecnica”, ma incredibilmente vere, attuali, incidentali.
Riempire il passato per dare senso al futuro. In fondo vale per tutto.
Roberto De Simone – Son sei sorelle: rituali e canti della tradizione in Campania – Editore Squilibri
Gianni Valentino – Napoli è la musica, viaggio nel tempo con De Simone – Venerdì di Repubblica
16 Commenti
I commenti sono chiusi.
Per me è un mondo tutto da scoprire. Ricordo che avevo un LP “qualche” anno fa (già, c’erano solo quelli..) con la loro versione definitiva della Tammuriata nera e non mi stancavo mai di sentirla.. sabato sera nel consueto zapping post-prandiale (si dice pure per la cena ?) mi sono imbattuto ne La Corrida e c’era una tizia che l’ha cantata, nemmeno male: non ho resistito e l’ho ascoltata tutta ! :-)
Bellissimo il pezzo. Stupende le persone, Primi anni 70, nello studio di “Radio Napoli Prima” la prima radio libera napoletana la quinta per anzianità in Italia, con Nicola Muccillo, Tony Ponticiello ed Armando Piazza conversavamo con loro quando venivano in Radio e trasmettevamo i loro pezzi. Ora Nicolain Rai ci intrattiene piacevolmente con la sua rubrica “antichi sapori” nel TG3, Tony fa il Papillon s Procida, Armando non suona più ed io, vecchio pubblicitario a riposo ricordo con infinita tenerezza quei tempi meravigliosi. Le favole, quando sono belle e vere, non infeltriscono.
ciao claudio
ho letto il tuo commento.
avrei piacere di parlare con te
che , da quello che leggo, hai vissuto
l’ epoca di radio napoli prima
il mio indirizzo è
[email protected]
un saluto
carmine
sono d’accordo con te, Fabrizio. Nessuna favola infeltrita. Queste donne del canto e del cibo, della voce e del sesso, con i loro i corpi sinuosi e prepotenti ritornano – grazie all’arte di De Simone – a popolare i nostri sogni e le nostre fantasie.
lina sastri e la compagnia di nuovo canto popolare. io ci sono cresciuta. anche con l’idea che quella era cultura
A vedere ” Masaniello ” mi portò Carlo Siviero . Ci andammo con le rispettive ragazze ( allora ), mogli poi .
Credo che rimanemmo seduti due o tre minuti, prima di lasciarci completamente trascinare dalla maestria
e dalla magia dello spettacolo, camminando, forse inseguendo, tra le splendide scene e cantate .
Posso paragonare questa emozione solo ed unicamente al concerto di Segovia al Conservatorio, quando
mancò la luce ( siamo pur sempre a Napoli, no ? ) ed il Maestro continuò a suonare la sua chitarra
alla luce di due candele … Carlo ci ha lasciato il 4 novembre del 2009 ( giorno di San Carlo ) . Gli devo,
a parte tante altre cose, nel corso di oltre quaranta anni di amicizia, anche questa . Grazie Carlo !
Riccardo Morelli
la Gatta Cenerentola è un capolavoro. E le Donne del mai abbastanza osannato Maestro De Simone lo sono con la D maiuscola. Lucio
E anche stavolta ti sei superato, grande Fabrizio! Ancora più grande perchè scrivi di una cultura che pur non essendo tua, hai avuto la capacità di assimilarla in pieno, raccontarla e glorificarla. Com’è vero quello che scrivi! Ormia i cosiddetti media televisivi non ripropongono tali radici culturali legate al territorio ed al suo folclore, i modelli televisivi propinati sono ben altri, molto più commerciali, edonistici, globalizzati. Se questo è quello che passa il convento, come vogliamo meravigliarci di quello che succede ad Arcore, nelle vele di Secondigliano o in qualsiasi altro luogo dove si consumano atti degradati e degradanti? Per andare su qualcosa di più semplice, ma che comunque va nella stessa direzione, ci sgoliamo a parlare di enogastronomia tipica e poi nelle nostre case o anche quando andiamo fuori, ai nostri figli facciamo mangiare le solite pennette al sugo o la solita abbinata cotoletta-patatine, senza nemmeno minimamente tentare di dare loro dei parametri di riferimento gustativo che almeno ricordino le nostre tipicità enogastronomiche, che sono poi anche quelle, hai detto bene Fabrizio, la nostra storia, la nostra cultura. Grazie Fabrizio, sei sempre più grande!!! ;-))
Quoto
Quale napoletano non ha ascoltato la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ha segnato sicuramente un periodo di grande espressività, che continua comunque ad esistere ogni volta che si riascoltano questi canti antichi semplicemente inserendo un cd nel suo lettore. E’ vero che oggi viviamo un momento storico di grande decadimento, di crollo totale dei valori e, cosa più triste, di speranza e positività. Lo sfrenato individualismo sta distruggendo in modo spietato i rapporti sociali, però sono del parere che in campo musicale, più che in altre forme di arte, l’uomo continui a dare il meglio di se ed a d esprimersi in maniera porfonda. Non penso affatto che il mondo della musica sia in crisi, ci sono nuove espressioni comunque validissime, magari spaziando in altri campi musicali. Con la musica è possibile sognare, distaccarsi dalla realtà, viaggiare e percorrere migliaia di chilometri senza spostarsi di un centimetro, ma bisogna avere orecchie, o meglio, anima per ascoltarla. Ritengo sbagliatissimo inquadrare un genere musicale entro confini di orientamento politico, la musica è e deve essere massima espressione di libertà. Le sette note scritte su un pentagramma costituiscono un unico linguaggio universale conosciuto ed utilizzato in tutto il mondo ed è l’unica dimensione capace di unire gli uomini.
Cristina Donà, splendida voce nuova, canta ” io credo nei miracoli che solo la musica può fare.
http://www.youtube.com/watch?v=DpLatqSMxh4
La canzone della Donà ha folgorato anche me anche se proferisco citare “io credo nei miracoli che la gente può fare”
E poi tutti a indossare il vestito per l’occasione, pronti che domani c’è la rivoluzione :)
Tranquillizzati Sara che da noi non c’è da menare nessuno: nella peggiore delle ipotesi, la più accreditata, non passerà il federalismo e si andrà alle votazioni. Per allora comincia a guardare le collezioni primavera-estate 2011 ma non spenderci un capitale perchè potresti dover rifare a breve il secondo acquisto.
Oh, Alba, per una volta che volevo volare alto…
Quello della Donà è un inno all’ottimism più che una chiamata alle armi.
Comunque il vestito per la primavera che arriverà l’ho già caparbiamente indossato
Zitta che oggi a momenti mi sarei fatta addiittura un tuffo a mare …abbiamo un sole bellissimo.
Che piacere arrivare fino in fondo a questo BEL pezzo.
Complimenti
S.
giù! quanto mi piace il tuo commento.