Ristorante Uliassi a Senigallia
Banchina di Levante, 6
Tel. 071 65463
Sempre aperto
Chiuso lunedì e martedì
www.uliassi.com
di Giovanna Pizzi
Si fanno certi voli quando ci si approccia alle più grandi cucine del mondo che, alla fine, mi viene da pensare che tutto si dovrebbe ridurre alla cosa più semplice da esprimere.
All’emozione primordiale senza filtri.
Alla sensazione che rimane, scevra da ragionamenti.
È buono?
Secco, immediato.
Facile? Per nulla!
Abituati come siamo ad aulicizzare (usato di proposito) ogni descrizione, a fare l’analisi logica delle tecniche e a cercare il retrogusto più impensato.
È buono? Sì.
That’s it!
Ecco l’ispirazione.
Due cose mi hanno folgorato della cucina di Uliassi.
-L’estrema leggibilità dei sapori. Quella cucina che ti mette a tuo agio pur essendo profondamente ricercata. Lo stile e l’eleganza che non si ostenta, quella di chi ha classe innata, in questo caso traslata al gusto. Quella semplicità, semplice nel suo senso più elevato, alla quale arrivi dopo esserti liberato di tutto il superfluo. La perfezione della sfera.
-E l’altra cosa folgorante è che a distanza di mesi ricordo esattamente tutti i piatti.
Tutta la sequenza del menù degustazione. Sembra un’altra cosa banale ma non lo è. Succede poche le volte che rimangono impresse tutte le portate, in un crescendo di apprezzamento dove non puoi credere che il successivo ti stupisce nuovamente.
E il ricordo, si sa, è l’istinto legato all’emozione.
Ed è sempre una questione di semplice, ricercata, immediatezza.
-Il wafer di nocciole e fegato grasso con uno shottino di kir royale, l’apertura che è ormai una firma.
-La seppia scottata e olio di guanciale, a ricreare un’assonanza tra il mollusco ed una fetta di lardo, bietola, miele e colatura di alici; e subito intuisci il senso ultimo della fusione dei sapori.
-Il riccio, ghiacciato, e semi di fico. Fresco e potente, essenziale e preciso, il primo effetto wow. Ne seguiranno altri.
-Il gambero rosso, le sue cervella, arancia e cannella. Sapido, acido, ancestrale e dipinto nel piatto a mo’ di merletto. Creato con lo stesso amore e rigore di chi ricama.
-La sogliola al vapore, lattuga e bergamotto. Dedicata a Piergiorgio Parini ma io (chissà perché) l’ho sentita subito mia. Delicata, aromatica e precisa,nel chiaro scuro di amaro e acidità.
-Gli spiedini di calamaretti grigliati e delicatamente gratinati con sfere di citronette ghiacciata che fuma a contrasto. Mi ci sono fiondata prima di fotografarlo: il richiamo di una felicità fanciullesca. Il piatto si chiama Rimini Fest, impronta digitale del suo Adriatico.
-Un crudo, straordinario, dai sapori mediterranei, del quale ringraziamo lo chef per l’omaggio.
-Ma il piatto forte per me è questo: l’ossobuco alla marinara, con trippette di baccalà. Maestoso. Effetto dipendenza da stupefacenti! Mare e terra insieme nei suoi sapori più intimi e prorompenti. Il tocco di classe di un grande genio.
-Che poi non ci credi che gli spaghetti affumicati possano rieccitare le papille gustative. Il principe del confort food, lo spaghetto con le vongole, estremizzato nei toni e nei sapori ed elevato a capolavoro assoluto.
-Lo chef è chirurgico nel crescendo ed ecco la spigola alla plancha, con salsa al vino bianco, morchelle e pesche. Anche qui contrasti, mare e monti, dolcezze e aromaticità, fusioni ed ingredienti ricercati e territoriali.
-E infine l’agnello alla brace; dire, io, che è perfetto mi sento inadeguata, ma è così. Con ciliegie, nocciole e sentori di vaniglia, per abbracciare anche l’entroterra.
-Sui dolci mi rilasso, l’esaltazione ha un limite, ma l’esecuzione del pastry chef è magistrale: sorbetto di cabossa (che è il frutto del cacao con un richiamo alla sostenibilità), mango e meringa; e “come una cassata” che è un gelato alla ricotta e ai sapori siciliani. Ma è la piccola pasticceria che gioca a sorprendere: Erborinato, cioccolato bianco e arancia; Ciliegia e amaretto di Saronno; Frizzi pazzi (Crumble al cioccolato frizzante); Macaron cocco e cioccolato; Darquoise al pan di zenzero; Gelatina di mirtilli e Martini; Mela verde in osmosi, Vecchia Romagna e menta.
Vorrei concludere, chiudendo il cerchio, con lo stesso concetto espresso all’inizio.
Che la grandezza si esprime in maniera semplice ed essenziale e che la perfezione non è mai ostentata.
Quello che resta deve essere “è buono”, “sono stata bene”, “me lo ricorderò per sempre”.
Scheda del 24 aprile 2024
Il Lab 2024 di Mauro Uliassi raccontato da Giulia Gavagnin
di Giulia Gavagnin
Il ristorante Uliassi, per chi scrive, è luogo dello spirito, oltreché di esperienze gastronomiche elette. Non perché Mauro Uliassi sia il più bravo, il più decisivo, il più incisivo, il superlativo incarnato.
Se il bello e il buono hanno indubbi connotati oggettivi (su questo tema accetto contradditorio, pur avvertendo il malcapitato lettore che ho sempre rispedito al mittente le fiacche tesi di chi propende per la tesi pan-relativista) è nel quid di soggettivismo che rivendico il mio personale, legittimo diritto ad esprimere codesta opinione.
Per una questione di sensibilità, appunto personale.
Innanzitutto, trovo la carriera di Mauro Uliassi assolutamente straordinaria, perché egli non è il folgorante artista genio e sregolatezza à-la-Paganini né un piccolo Mozart.
E’ un uomo che è andato piano e lontano, che ha saputo innestare in uno stile unico e assolutamente personale le radici marchigiane profonde, la passione per il cinema e il rock più colto, l’esperienza da professore di scuola alberghiera, la perdurante dimensione artigianale condivisa con la sorella-artista Catia in un ristorante qualunque nato piccolo e a un certo punto divenuto grande.
Ha iniziato a far comprendere al mondo la sua grandezza quando i suoi illustri colleghi poco più giovani avevano già almeno due stelle appuntate sul petto; ha interiorizzato e reso unica la lezione di Adrià quando il catalano aveva annunciato la scomparsa dalle scene, ha preso la terza stella nel 2019, in piena maturità ma divertendosi come un ragazzino.
Così, in quel piccolo ristorante sul mare, illuminato dalla luce tersa che dalle onde dell’Adriatico giunge come un fuso tra il biancore dei serramenti e il candore delle tovaglie, ogni anno si ripete il rito del Lab.
Percorso in dieci tappe, frutto dell’ozio e negozio invernali, che sviscera i possibili incroci tra mare, terra, aria, sensazioni, profumi. Perché nella semplicità, nell’estrema riduzione all’essenziale, i piatti concepiti da Mauro Uliassi insieme alla cementata, fidatissima squadra (gli insostituibili Mauro Paolini e Luciano Serritelli) sono composti da note sferzanti, suggestioni che evocano i primordi degli elementi naturali come forse nessun altro, quantomeno in Italia.
Uliassi nella finitura dei piatti è quasi un gemmologo, intaglia ed estrae sfaccettate luci, traducendole in sapori. Ma, come spesso ama ripetere, è anche un cuoco sentimentale: la sua è cucina di amore, che tocca pertanto tutti i sensi dell’essere umano o, quantomeno, ci prova.
Il Lab 2024 è più o meno il ventesimo della serie, non dirò “il lab migliore di sempre” solo perché ogni anno c’è sempre qualcuno (autorevole) che lo scrive e proprio perché frequento la tavola senigalliese da qualche anno mi permetto di dire che non c’è un lab migliore e uno peggiore, che ognuno è una storia a se perché ognuno carico di sfumature che vengono percepite con una buona dose di soggettività.
Questo Lab, proprio da questo punto di vista soggettivo, inizia con una sequenza più gentile e meno sferzante rispetto agli ultimi tre-quattro.
Continua la ricerca sull’elemento vegetale, che ha la potenzialità di conferire tinte “pressochè infinite al piatto”, secondo le parole usate dallo chef, ma questo non si pone in contrasto con gli ingredienti, bensì a completamento.
“Ogni anno il nostro sforzo è diretto a colpire il cuore del pubblico, a cercare di capire cosa possa farlo stare bene”, dice Uliassi. “Non c’è una ricerca a tavolino. L’anno scorso potevano essere le seppie con l’olio di guanciale (che ci ha riproposto quest’anno come bonus, ndr), di evidente impatto. Se quest’anno le intersezioni gustative sono diverse, è dovuto al fatto che in quel momento siamo rimasti colpiti da quella combinazione di ingredienti”.
Così, dopo l’ormai consolidato incipit con wafer di foie gras e shot di kir royale, le danze si aprono con un vero e proprio preludio, limpido e diretto.
Cucchiaino di mandarino e ventresca di tonno con olio di Timiz, in cui gli olii essenziali dell’agrume stemperano la grassezza del tonno che termina con una nota vagamente da Hammam.
A questa piccola carezza, segue la rinfrescante e sapida “minestra fredda di limoni e fragole”, un altro stacco preparatorio all’inizio della prima parte dello spettacolo.
“Lumache, crispigni e terroso di muschio” è un piatto di Uliassi al 100%. Lumache (presenti pressoché in ogni Lab), elementi vegetali indigeni che creano un sapiente gioco di consistenze, senza creare grandi contrasti gustativi, spingono dirette verso il territorio, dove stagni ed acquitrini sono a pochi chilometri dal mare.
A seguire, uno dei piatti che faranno più discutere, perché si distacca sensibilmente dalle ultime proposte di Lab. “Peperoni, mandorle e vaniglia”, interamente veg, con peperone scottato, spellato e di sinuosa consistenza, avvolto dalla sensazione lattea della mandorla e la sua croccantezza in un gioco che è quasi di cosmesi.
Un highlight, come il piatto successivo.
“Rane fritte, estragon, pompelmo e spuma d’arancia”. Coscette di rane fritte, croccanti, con una salsa quasi berneaise, e una spinta inaspettata, citrina del pompelmo che conferisce una direzione inaspettata al piatto, secondo il verbo dell’Uliassi che preferiamo, quello che cambia direzione quando meno te l’aspetti. Ancora parla il territorio, le rane erano di moda negli anni settanta e ottanta, specialmente da queste parti , quando se ne trovavano numerose nell’ecosistema.
E il territorio torna di nuovo, “saltimbocca alla senigalliese di quaglia”, presentate in una pentola Staub, saltate e completate di erbe e olive, un piatto intenso, diretto e intellegibile, che privilegia la materia prima alla ricerca dei contrasti.
Che tornano, invece, inevitabilmente nel “Rognone di pecora, gambero freddissimo e noce moscata”, un gioco di sapori fortissimi e consistenze che si pone in continuità con i piatti degli ultimi anni (vedi l’agnello fuori di testa) in cui l’elemento animale viene persino aumentato e stemperato non per effetto di altri ingredienti ma della temperatura del gambero. Un piatto denso e completo, che rappresenta al 100% la cucina di Uliassi.
La chiusura salata è affidata alla tagliatella, ragout di pernice e tartufo nero. Questa volta Uliassi non ha “indagato” sulla pasta secca come negli anni precedenti, preferendo citare il se stesso del menu di caccia, senz’altro indisponibile fino a fine settembre. Nessuna rivisitazione della pasta comfort, quindi, ma un piatto del “cacciatore”, anch’esso leggibile e pulito, succulento ma molto diretto. Forse l’episodio meno sorprendente, solo perché conosciamo bene i piatti di Uliassi e ci aspetteremmo sempre qualcosa di inconsueto o, quantomeno, polifonico dietro l’angolo.
La volata finale è, come sempre, affidata alla pasticceria di Mattia Casabianca con la granita di albicocche e zafferano e al gelato di mandorla, mandorle, caffè e mirtilli, quest’ultimo in grande assonanza estetica con il locale.
ULIASSI
Banchina di Levante 6
60019 SENIGALLIA (AN)
071 65463
Scheda del 4 giugno 2023
Al ristorante si va per scoprire nuovi sapori o per confermare quelli che ci piacciono. Mauro Uliassi da anni è sul tetto della gastronomia italiana perchè ogni volta che ci vai, anche la numero millemila, soddisfa entrambi questi bisogni. Soprattutto per chi, come me, predilige la cucina di mare a quella di carne da sempre: il mare è la Formula 1 del cibo per le infinite possibilità che offre al gusto e all’olfatto partendo esclusivamente dalla materia prima. Ecco perchè i Lab di Mauro Uliassi sono imperdibili per gli appassionati. Lui sull’Adriatico, Pascucci sul Tirreno, sono in assoluto la migliore ricerca italiana sul tema senza ombra di dubbio.
Uliassi ha una marcia in più: non gioca solo sul numero di possibilità, ma riesce a sviscerare ciascuna più volte e da più piani, un po’ come Salvatore Tassa , vede dove gli altri guardano e la cosa più bella sta nel fatto che con gli anni questa capacità creativa (mettili insieme, ricci di mare e semi di fichi) cresce di continuo. Il motivo è nella spiegazione della sua carriera, inversamente proporzionale a quella della maggioranza dei suoi colleghi: ossia più tempo in cucina e meno in apparizioni pubbliche.
Perchè se tu stai concentrato sulla materia, sul prodotto, non basta una vita per raccontare il mare nel piatto.
Cominciamo col dire che da Uliassi si sta bene, benissimo. Personale collaudato con la regia della sorella Catia in sala, lei grande sommelier e bravissima padrona di casa che ti mette subito a tuo agio come pochi in Italia sanno fare (inevitabili i riferimenti generazionali ad Antonio Santin e Livia Iaccarino). Da Uliassi il servizio è con il sorriso, sempre, e con una attenzione ai dettagli da killer professionista. Ti cade il menu a terra e lo raccogli subito ma dopo un secondo arriva una giovane di sala che ti chiede se vuoi cambiarlo. Niente paura, noi boomer siano nati tra i batteri e siamo sopravvissuti alla grande.
Quanto ai prezzi diciamo che forse è il più economico fra i Tre Stelle in Europa: menu degustazione da 230-250 euro ma puoi mangiare anche alla carta (minimo tre portate). Insomma, caro ma non innavvicinabile considerato che i menu Tre Stelle a Parigi ormai viaggiano sui 500 euro. E qui vale l’esperienza tutta.
Il fatto di poter mangiare alla carta oltre che provare il menu Lab rende dunque questo ristorante aperto anche agli avanguardisti enofighetti che devono subito sparare le foto su Istragram, oltre agli appassionati di buona cucina e ai critici professionisti e ciò lo rende un tristellato ecumenico, e dunque molto amato da tutti.
Non c’è presunzione, ma mestiere, quello vero che mette al centro del piatto il cliente e non il proprio ego. Del resto qualsiasi psicologo da social vi può dire che il complesso di superiorità è frutto di un complesso di inferiorità e che la presunzione è propria di chi sa poco e crede di sapere tutto proprio perchè sa poco.
Iniziamo con il ricordo di uno dei suoi piatti simbolo, tipico da boomer, il wafer con il foie gras. Un ricordo per chi ci è stato, la testimonianza di un’epoca gastronomica che non tornerà più.
A me qui piace tanto il pranzo, con vista su un mare senza confini e limiti.
Cosa si mangia da Mauro Uliassi a Senigallia
La partenza è fulminante: seppia per la prima volta ripulita e ricci di mare con semi di fichi. Il gusto è messo sotto pressione prima dalla freschezza, poi dalla dolcezza, infine da toni amari prevalenti che ripuliscono completamente il palato e lo lasciano appagato.
Abbiamo poi una esecuzione veg magistrale: anche qui la capacità di estrazione del sapore è spaventosa, pravalgono i toni amari per lasciare spazio alla piacevolezza assoluta.
L’amaro denota sicuramente un aggiornamento del gusto, ma non è una scelta ideologica: con l’insalata di ostriche e con le lumache torna il comfort food, la assoluta piacevolezza delle due carni che unite agli elementi vegetali si propongono in maniera diversa dal solito ma sicuramente in modo molto efficace. Alla fine si tratta di due piatti golosi e piacevoli.
Da manuale l’anguilla: qui è proprio il dolce con l’acidità a far camminare una delle carni più grasse e difficili da cucinare. Un piatto completo, di grande scuola.
Uliassi omaggia poi la pasta all’assassina di Bari. Ogni volta che un cuoco si misura con le ricette tradizionali corre seri rischi di essere linciato sui social. Basti ricordare l‘amatriciana di Cracco che fece riunire addirittura il Consiglio Comunale di Amatrice. In questo caso la ricetta punta su due elementi di quel piatto: la croccantezza della pasta e l’intensità piccante del sugo di pomodoro. Un divertissement e come tale va letto.
Ancora un aggiornamento alle tendenze più attuali, con questo agnello marchigiano passato sui carboni per chiudere il pranzo e la pasta alla Hilde, premiato come piatto dell’anno da 50 Top Italy nel 2022
Qui possiamo parlare di colpo di genio in ambito gastronomico: la sensazione è quella di mangiare una pasta condita con il profumo verde dei filari di pomodoro. Un effetto ottenuto con le foglie di fico che hanno la stessa molecola. Buonissima, vegetale, verde e fresca.
Il capitolo pasticceria torna negli ambiti classici e non insegue la tendenza all’amaro, però con una dolcezza mai eccessiva e mai stucchevole e soprattutto con notevole leggerezza.
CONCLUSIONI
Un ristorante per tutti, impossibile uscirne insossdisfatti. La ricerca del Lab 2023 è concreta e piacevole. Quanto al bere, seguite il mio consiglio e invece di fare gli sboroni con Borgogna e Champagne, lasciatevi guidare da Catia nel magnifico universo Marche, che vanta uno dei migliori bianchi della Terra, il Verdicchio.
Non puoi dire di essere stato in Italia o di conoscere l’alta cucina, se non sei mai venuto alla Banchina di Levante a Senigallia.
Amen
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