Speciale 50 best restaurant: Niko Romito, il menu Ideale di dodici portate
Quante volte vi siete sentiti dire di non togliere il grasso dal prosciutto per non perdere il sapore? Bene, la cucina di Niko Romito è concentrata sul magro ed è da lì che punta ad estrarre il sapore vero, l’anima di un prodotto.
In fondo il nocciolo della ricerca del grande cuoco abruzzese è questo: niente salse, niente grassi, niente zuccheri, tanto vegetale. Acidità e toni amari adesso tanto di moda supportano la materia ma non la semplificano.
Potremmo definirlo un estremismo equilibrato. La ricerca dell’essenzialità non è infatti di natura ideologica, ma di studio sull’estrazione del sapore senza mai perdere di vista l’equilibrio.
L’apertura di Spazio a Roma e Milano consente di seguire una linea sempre più coerente al Reale di Casadonna nato nel 2011. Una coerenza che non si preoccupa di piacere a tutti e a tutti i costi: bisogna preoccuparsi se si piace a tutti, Niko Romito dixit.
Quello che mi colpisce è il costante adeguamento della cucina allo spirito di questo monastero ristrutturato, dove il bello non è ostentato, le comodità sono essenziali, lo spirito è quello di un rifugio dai casini del mondo. Quindi tutto, dall’arredamento al servizio di sala, esprime questa tensione costante, senza strizzate d’occhio ed è indubitabile che per cogliere tutte le sfumature bisogna avere un palato non solo allenato ma anche aggiornato.
Quindi dopo l’aperitivo in cui passato e presente di intrecciano, preparati da un infuso di bietola da bere a canna e dall’amaricante dell’oliva, si parte con la misticanza e mandorla. Seguendo questo percorso, dodici portate a 170 euro più 100 di abbinamento ai vini, si riesce ad entrare nell’idea che il cuoco ha di un pranzo: provare la materia nella sua purezza, coerenza, una linea retta sotto traccia più che montagne russe.
I due abbinamenti di mare e orto sono perfetti. La cottura è straordinaria, la spigola e i calamari si completano con il prezzemolo e la lattuga.
Il pane qui è inteso come portata, assumendo quasi un valore sacrale, un modo per presentare il grano.
Il menu prosegue alternando piatti già provati e alcune novità.
La pancetta colpisce a cominciare dal colore, come in altre occasioni, non ci sono elementi che possono confondere, niente trucchi, l’invito e concentrarsi.
La linguina fredda è un difficile equilibrio e possiamo immaginare quante volte sia stata provata per bilanciare l’ostrica agli amidi.
L’animella e la lingua, due grandi classici comunque rivisitati e aggiornati, sono stati due inserimenti.
Ma torniamo al menu, con il primo capolavoro: la verza arrosto dopo averla sottoposta ad un processo di fermentazione. La concentrazione di sapore è davvero impressionante, non si gioca, come ci si aspetterebbe dal nome del piatto, sui toni amari del bruciato. Parla solo ed esclusivamente la materia prima a cui sono stati necessari ben 40 giorni di preparazione.
C’è un evidente richiamo a Tassa in questo cacio e pepe senza cremina strappa applausi.
Poi seconda standing ovation: il miglior piccione di tutta la mia vita. Essenziale: senza grassi, senza pelle, giusto un rimando di pistacchio per dare un tono amaro se lo si desidera.
Il gel di vitello è quasi un predessert
I due dolci sono non dolci e completano il menu.
Sempre più ampia la carta dei vini, ricca di spunti e di curiosità, tra cui il Pecorino prodotto dalla vigna che circonda la struttura: fresco e di buon corpo. Secondo noi con buone prospettive nei prossimi tre, quattro anni.
CONCLUSIONI
Il percorso di Niko Romito è ben lungi dall’essere arrivato al dunque: i progetti sono tanti, ma l’impressione è quella di essere sempre più in un laboratorio culturale e gastronomico che in un ristorante classico. L’esperienza è completa e appagante, richiede concentrazione perché non ci sono cali di tensione, ogni piatto è un colpo di scena affidato al gusto più che all’estetica scarna e monacale. L’impressione è un viaggio molto personale nell’alta gastronomia del mondo in cui il territorio parla con i prodotti e i rimandi alle ricette tradizionali sfumano definitivamente. Proprio perché è un percorso culturale, l’età non potrà che fare più che bene all’arricchimento di questo stile che porta la cucuina italiana nel futuro.
Piana Santa Liberata, Castel di Sangro
2 Commenti
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Credo che la difficoltà della cucina necessiti, quasi paradossalmente, di un percorso lungo fatto alla Casa madre, complice anche l’atmosfera e ovviamente una spinta sull’acceleratore più netta rispetto a Spazio. Dove forse in alcuni casi si resta in mezzo al guado, in bilico sul confine labile tra essenzialità e asciuttezza. Ma questa mia impressione alla fine è forse esattamente quello che si vuol provocare: destabilizzare i parametri consueti, porre interrogativi, far venir voglia di riprovare, come riascoltare una musica o rivedere un film, per poterne cogliere ulteriori sfumature. Perché c’è una memoria dei gesti e delle persone, vedi come la ripropone e la racconta Bottura, ma anche una memoria astratta, se si può dire, di come vorremmo che fossero i profumi, i sapori, le cose che ci circondano, che ci accompagnano: penso a Casadonna, all’essenzialità, ai progetti di formazione, penso al pane al centro della tavola. Di fatto non è possibile modificare il “reale”, ma solo provare a distillarne l’anima, in una serie di gocce che sono lampi senza racconto, è un tentativo che ha a che fare col futuro.
La retorica dovrebbe essere obbligatoria nel percoso scolastico anche perché è più facile imparare da soli l’uso si uno smartphone o capire se la pizza di un pizzaiolo mediatico sia veramente all’altezza delle recensioni glorificanti.
Più difficile è comprendere il linguaggio persuasivo e manipolativo della comunicazione mediatica.
Romito o Bottura, Bottura o Romito? Quali sono le differenze sul piano retorico? Sono più bravi in cucina o con la fuffa retorica?