Reale Casadonna di Niko Romito: l’assoluto della materia e la verità di Spazio
Reale Casadonna
Contrada Santa Liberata, Castel di Sangro (AQ)
www.casadonna.it
Tel. 0864/69382
Giorni di chiusura: lunedì e martedì
Niko Romito e il Reale Casadonna: la storia di una visione. Tutte le aziende nascono e si sviluppano grazie ad una visione imprenditoriale che non si chiama piano di fattibilità ma sogno. Poi arrivano i burocrati pubblici che provano a chiuderle e i ragionieri che le chiudono con il taglio dei costi. L’Italia è in declino per questo, ma il settore enogastronomico vola grazie alla visione, agli investimenti e ai sogni.
Nel settembre 2011 venimmo a Casadonna a Castel di Sangro, aveva aperto da poco, mancavano le camere e Niko ci raccontò che questo posto lo aveva attratto sin da ragazzo. La prima volta ci era entrato scavalcando il cancello. Da allora sono passati quattro anni e nessuno poteva pensare che il progetto si sarebbe realizato in così poco tempo. “Il 2011 e il 2012 sono stati gli anni più difficili della mia vita -racconta – era iniziata la crisi, avevamo una esposizione pazzesca. Poi piano piano il progetto ha convinto l’amministrazione comunale, Slow Food, le guide specializzate”.
Vi dico subito che nel 2011 non avevo ben capito cosa stava succedendo e quando è partito il progetto formazione pensavo che solo era un modo per produrre reddito. Invece è il cuore, più del ristorante, dell’impresa di Niko e della famiglia. Già, perché se ci pensate, l’ultima grande scuola di cuochi nata da un cuoco è stata quella di Marchesi. Da allora i grandi hanno avuto ragazzi a bottega che si sono formati, ma la Formazione Romito Spazio è qualcosa di più: è la creazione di posti di lavoro. “Siamo a sessanta stipendi circa” dice Niko. E Ducasse, che è stato con Vizzari a Spazio Milano aperto con Benetton, lo ha definito il primo modello esportabile di cucina italiana all’estero. Anche le attuali scuole formano, ma trovare lavoro è altra cosa. Invece qui, prima nell’agosto 2013 a Rivisondoli nel vecchio Reale, poi a Roma con Farinetti, infine a Milano, nasce un modello di trasmissione del sapere che culmina nel lavoro che nessun altro cuoco italiano può vantare. “Dissero che Farinetti era il mio socio occulto”, scherza.
Confesso che ho avuto sempre un debole per questo cuoco: i montanari sono come le belle donne, ti attraggono e ti selezionano perché vivono con la psicologia dell’assedio e tu devi far funzionare il cervello mettendoti nei loro panni per interagire al meglio. La sua visione di cucina Niko Romito l’ha ben spiegata in questa intervista al Mattino a maggio. E l’assoluto di cipolla, il piatto più votato nel sondaggio lanciato da Lorenza Fumelli su Agrodolce è una esemplificazione di come la materia greve si possa trasformare in qualcosa di leggero, lieve, quasi etereo. Sono convinto che questo è il legame profondo con la cucina di Salvatore Tassa.
Non a caso Niko per me rappresenta il massimo esponente della cucina essenziale, quella che si preoccupa di centrare la materia e di subordinare la tecnica al prodotto e non viceversa.
La batteria di benvenuto è divertente ed esaltante e già preannuncia quello che sta per accadere: niente cremine (a parte la spuma di ricotta fresca), materie prine del territorio trattate con semplicità. Non per fare lo “sborrone”, ma quello che mi ha colpito di più è stato senz’altro il ravanello, pura essenza, mentre quello che mi è piaciuto di meno proprio il pane con lo scampo, un eccesso di opulenza non in linea con tutto il pranzo, il mare si perde nel pane.
Ma veniamo ai piatti. Il primo antipasto, assolutamente vegetale, è materia prima straordinaria con un goccio di gin che la spinge senza sovrastarla. Un vero colpo amarognolo sulla cremina di mandrole buonissimo.
Lo spaghetto con l’ostrica qui è freddo, molto diverso da quello di Guido a Miramare: la temperatura di servizio è fondamentale, la pasta è cotta in amido di patate che lega benisismo di due elementi fondamentali ed è servito come antipastino. Un colpo e via.
Di grandisisma delicatezza i primi. I ravioli di lingua sono in un brodo così leggero e pulito che il mio iPhone non riesce a fotografare. Resta l’ombra:-)
La spigola invece qua preserva tutta la sua freschezza marina ed è aiutata dalla pasta.
Lo spaghetto al pomodoro è una riproposizione dell’antica ricetta napoletana ‘o Roje, appunto: spaghetti e pomodoro. In questo caso sono tre pomodori di tipo diverso, ciascuno cotto in un modo preciso e il risultato finale è una concentrazione pazzesca di sapore. La dolcezza della raccolta 2015 è comunque sostenuta da una buona acidità e l’equilibrio con lo spaghetto Verrigni è assoluto. Non prevale né l’uno e nè l’altro elemento, ma al palato c’è fusione completa.
Con i peperoni e il baccalà avrei preferito invece un’altra pasta secca, magari corta.
Buonissimo l’orto-mare con calamaro e lattuga, un piatto commovente, scusate il termine, per l’uso dell’ortaggio, considerato sempre come qualcosa da risolvere con olio e aceto. Ricordo invece mia zia, memore delle difficoltà della guerra, con quanto amore la preparava e la cuoceva.
Vedere ciò che tutti guardano fa la differenza in tutti i campi. A patto, ovviamente, che la materia prima sia superba.
Invece questo è il piatto, un inframezzo, che meno ci ha convinto perchè la dolcezza dell’anguria prevale su quella del pomodoro. I due elementi non si fondono come potrebbero. Forse è una questione di quantità.
Ma torniamo ad alta, altissima quota: la melanzana con una idea accanto di pomodoro e di miele è materia prima assoluta come non l’avete mai mangiata. Tutto il gusto è già dentro la materia che viene proposta, non c’è bisogno di aggiungere altro, basta saperlo estrarre. Questa è la grandissima lezione di questo piatto che trasforma l’ortaggio in un filetto di carne. Molto meglio, ovviamente.
Il piatto delle animelle è centrato, mi ricorda il cervello che si mangiava da bambini anche se questo è cuore di vitello. La noia e la grassezza (più percepita che reale) dell’animella riceve una spinta pazzesca grazie all’acidità che ne esalta il sapore e la dolcezza.
Un capitolo a parte merita il discorso del maialino, soprattutto per noi che ne abbiamo le palle piene di mangiarlo precotto e incrostato sulla piastra, tutto uguale dalla Groenlandia alle Maldive, ovviamente a “bassa temperatura” per 75 giorni. Qui invece è un discorso molto simile alla melanzana: la materia prima della carne esplode nella sua purezza ed è completata dalla dolcezza del grasso di un animale di grande qualità. Una lezione per i cuochi che cercano scorciatoie. Bruciacchiare, dare tono fumé, va certamente incontro al gusto, ma è una tecnica da usare per allungare un sapore che già deve essere dentro il prodotto, non può sostituire il nulla. Tecnicamente, anzi, bruciare, è un errore, caramellare un rischio. Qua è maiale puro che tutti dovrebbe imparare a fare. Una lezione in un momento in cui il gusto vero si sta perdendo come il latino all’inizio del Medioevo.
Lo stesso discorso vale per il piccione, una prova per tutti i cuochi dell’alta ristorazione anche se è un animale povero, talmente povero che è difficile da trovare. Il fornitore di fiducia di Niko ha chiuso dopo il terrmeoto, adesso arrivano dal Piemonte. Anche in questo caso l’animale è servito senza orpelli, giusto un po’ di pistacchio amaro per bilanciare la dolcezza se si vuole.
Notate come questi piatti siano senza orpelli, un minimalismo estetico che corrisponde alla forza della materia e della tecnica usata per trasformarla.
Infine i dolci, leggeri, piacevoli, la degna conclusione di un persorso di altissimo livello.
Nel primo si ha prima l’effetto spiazzante dell’agrodolce, poi piano piano la liquirizia riveste la lingua come il piede entra in un calzino. Una sensazione che si rinnova ad ogni boccone e che denota una grande complesistà del piatto.
Il secondo dolce è senza un grammo di zucchero. E ho detto tutto.
La cantina appare un po’ ferma, ma è comprensibile dopo i tanti investimenti degi ultimi anni. Per dire, in Campania ci sono tanti Fiano e tanti Greco che ben si sposerebbero con questa cucina ma che non sono presenti in carta.
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CONCUSIONI
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Abbiamo trovato Niko finalmente più rilassato. La percezione dall’esterno è che la sua vena creativa è ben lungi dall’essersi esaurita. Il segreto ce lo spiega lui stesso: fare scuola significa trasmettere esperienze ma anche riceverne, è un arricchimento continuo se alla base ci sono umiltà e curiosità, due doti che a lui certo non mancano. Chi soffre di egoismo di mestiere dovrebbe pensare proprio a questo, in tutti i campi: la vena personale dopo una certo periodo è destinata ad esaurirsi come una qualsiasi miniera. E’ il rapporto con gli altri, soprattutto con i giovani, che ci permette di continuare a crescere senza fermarci.
La cucina di Niko è un momumento allo stile semplice ed essenziale della modernità gastronomica, facilmente leggibile pur matenendo salde le sue radici nel territorio da cui ha preso spunto con orgoglio. Venire qui è una esperienza completa, un passaggio obbligato per capire dove sta andando la nuova cucina italiana così come la definisce Enzo Vizzari.