Quando il vino batte la Coca Cola
di Carmelo Corona
15 agosto 2010. Fatidica giornata estiva che, come tutti gli anni, simboleggia un po’ il volgere al termine della bella stagione. Tutto è già organizzato, stavolta a casa di amici romani che vengono a villeggiare a Selinunte quasi ogni anno. Per la prima volta nella mia vita, mi chiedono di contribuire portando un dolce, anziché del vino. Per il pranzo, menu classico, territoriale: bruschette di pane nero al pomodoro, spaghetti al pesto d’aglio, pomodoro e basilico, salsiccia e pancetta alla brace come se piovesse (circa 9 kili, se ho ben capito, per 12 persone di numero).
Io sono vegetariano ma, stranamente, la salsiccia alla brace è l’unico tipo di carne che ancora mi stuzzica, a patto di divorarla a scottadito direttamente dal fuoco. A tavola c’erano oltre alla funesta, immancabile Coca Cola (ormai più diffusa del Cristo crocifisso!) anche alcune bottiglie di un giovane, tannico, siciliano “vinello” (sarei quasi tentato di dire “vinaccio”, ma mi trattengo dal farlo) dal pessimo rapporto qualità-prezzo ( 8 euro la bottiglia!), prodotto da una emergente cantina sociale siciliana e di cui tacerò il nome per ovvie ragioni. Un vino che il padrone di casa aveva senz’altro ricevuto in omaggio da qualche compiacente conoscente locale.
Il classico vino da “moderna vineria” o wine bar per chi ama i neologismi di foggia anglosax. Un vino buono come accompagnatore per le “small talks” di 2 o 3 amiche sedute ad un tavolo qualunque, ma certo non per accompagnare una qualche pietanza degna di questo nome. Di una acidità davvero esorbitante e con persistenza gusto-olfattiva prossima allo zero (come tanti “vini-puttane” prodotti per il mercato USA o asiatico), aveva però, devo a malincuore ammetterlo, una grande bevibilità (dovuta ovviamente alla sua grande freschezza) che lo rendeva alquanto gradevole e gettonato, soprattutto dalla componente femminile presente, e questo nonostante le sue caratteristiche gusto-olfattive e dimensionali non gli consentissero di “coprire” né gli spaghetti al pesto (troppo aromatici questi, per via dell’aglio) né la carne arrostita (poco strutturato il vino). Però, nonostante il pessimo vino a tavola, due cose hanno colpito la mia attenzione. In primis, ho registrato con piacere l’approccio delle signore a quel vino (nonostante la mia decisa e palese stroncatura “tecnica”).
In secondo luogo, con mio sommo stupore e piacere, ho notato che, le bottiglie di Coca Cola a tavola sono state quasi del tutto snobbate. Di converso, tutte le bottiglie del vino in questione (non ricordo se 5 o 6, senza considerare che se ne è rotta una) sono state fatte fuori. Non mi succedeva da tempo. Assistere ad un simile trionfo di un vino a tavola (e pure di basso profilo!), con surclassamento della “sacrosanta” Coca Cola. Il vino mi aveva deluso, d’accordo. E se l’avessi portato io non sarebbe di certo andata così. Vedere molti commensali impazzire per quella specie di “collutorio” dal colore rosso violaceo (però dal packaging, devo dire, ben azzeccato) mi faceva, da un lato, un po’ incazzare, e dall’altro mi riportava alla mente un singolare pensiero del grande Emile Peynaud: “Il gusto è conforme alla rozzezza dell’intelletto. Ognuno beve il vino che merita”.
Vabbè. Ciononostante, il mio animo gioiva ugualmente, per la vittoria registrata sulla Coke. Il vino, già presente all’alba della storia, (la grandiosa Epopea di Gilgamesh, ce lo conferma), dopo oltre 5000 anni, riusciva ancora ad essere il sovrano assoluto, incontrastato, della convivialità, del “vivere con gli altri”. Al convegno Lo Stato del Vino organizzato a Roma dal Gambero Rosso nel mese di maggio di quest’anno, il mega-tecno-enologo Riccardo Cotarella ha parlato, tra le altre cose, del mercato USA del vino, in costante crescita, indicando come principale target di riferimento le donne sui 30 anni socialmente e professionalmente affermate.
Ricordando tutto questo, e avendo sempre a mente i consumi inesorabilmente calanti di vino in Italia, ho avuto un flash e mi sono detto: e se anche da noi fosse il gentilsesso a dare una smossa ai consumi interni del “liquido odoroso”? Interessante ipotesi di lavoro.