Pizzeria Da Michele: Okkkey, imparate una volta per tutte la storia della pizza napoletana
Spesso il modo migliore per andare avanti è quello di stare fermi. Soprattutto quando si parla di cibo: mentre la televisione impone ricette strane dando l’illusione che la modernità passa attraverso il piccolo schermo, diventa avanguardia chi difende il passato e le proprie radici. Il che non significa stare imbalsamati, ma, per esempio, scegliere ad un certo punto di fare solo margherita e marinara mentre in città si iniziava a diffondere la moda di più pizze.
Margherita e marinara, centinaia al giorno, tutti i giorni per tutto l’anno. Ecco cosa significa Da Michele. Un monumento della pizza napoletana che adesso, grazie a Laura Condurro, quinta generazione di una tradizione iniziata nel 1870, ha finalmente raccontato questa leggenda. Noi del Mattino nella guida Mangia&Bevi 2017 quest’anno abbiamo premiato proprio la margherita di Michele come pizza dell’anno.
Non siamo passatisti, ma in questa alluvione di messaggi commerciali su impasti con farine di vario tipo e proposte spesso caricaturali riteniamo la pizza dei Condurro il vero simbolo di Napoli. E basta leggere questo libro per rendersene conto, di come una tradizione abbia superato due guerre mondiali, il colera, il terremoto, restando testimone dei cambiamenti senza mai abbandonare le proprie radici.
Anche l’uso dell’olio di semi invece di quello d’oliva è indicativo. I Condurro hanno saputo creare un gusto unico e fedele a se stesso, quello ormai ancestrale della pizza napoletana. Intendiamoci, oggi la situazione è migliorata, ci sono decine di pizzerie dove si mangia un ottimo prodotto. Ma chiunque voglia capire dove e come è nata questa magia deve venire qui, in quella che sino allo scorso anno era sede unica, prima delle aperture a Roma e Londra di questi ultimi mesi.
Perchè la pizza napoletana non banalmente è farina più olio più pomodoro più mozzarella. La cottura violenta e breve nel forno costruito proprio per questo trasforma le componenti e le fonde in un sapore unico, nuovo ed equilibrato tra la struttura, l’acidità del pomodoro, il grasso del latticino. Niente di meglio è stato sinora inventato per quanto riguarda questo prodotto da forno. Sentite troppo il pane? Allora è una focaccia, non è la pizza napoletana.
Ma i Condurro hanno influenzato più di ogni altra dinasty il simbolo gastronomico di Napoli e dell’Italia restando fedeli alla cosiddetta ruota di carro, ossia della pizza che non può essere contenuta del piatto. La pizza dei Tribunali, di Forcella e della zona della Ferrovia che i signori a Chiaia hanno poi fatto diventare più piccola perché era già l’epoca, cento anni fa, in cui i ricchi iniziavano a pensare alle diete dimagranti.
Come scrive Tommaso Esposito nella prefazione del libro edito da Polidoro (pp.130, 12 euro), la stessa attesa è una liturgia che fa parte del nostro rapporto con il cibo, o magnà.
Noi gli ziti li spezziamo non li compriamo già tagliati, e la pizza l’aspettiamo. Nell’apparente inutilità di questi gesti secondo i canoni di una società che ha fatto della velocità e della quantità valori positivi assoluti, c’è l’essenza dei nostri piatti.
La gioia, alla fine, che arriva dopo l’ultimo ostacolo.
E in questo simbolismo c’è lo spirito di questo libro che non si deve assolutamente perdere se amate Napoli e la sua pizza.
Non quella dei gastrofighetti del 2.0, ma quella che sta conquistando il mondo.