Pizza Hut chiude per bancarotta e noi non ci stracciamo le vesti: l’omologazione non è più un affare
Pizza Hut chiude per bancarotta. La notizia è ufficiale e ci conferma che niete sarà più come prima: il Covid ha accelerato i processi di strutture che già stavano in piedi per miracolo, soprattutto nella ristorazione.
Non ci stracciamo le vesti per questo: sono migliaia le pizzerie napoletano che stanno aprendo nel mondo, un trend concreto che ribalta un mantra che eravamo costretti ad ascoltare ad ogni convegno economico sul ondo pizza: “Il modello artigianale della pizzeria non è proponibile, lo stile napoletano a malapena copre il 5 per cento dei consumi mondiali”.
E giù con i peana a Pizza Hut e a Domino’s.
Invece l’incredibile è successo. Per gioco cinque anni fa a Parigi filmai una fil davanti a Ober Mamma, famosa pizzeria napoletana e, a fianco, il Pizza Hut vuoto, senza rider in attesa.
I danni fatti da questo colosso sono incalcolabili all’immagine dell’Italia, perchè si presentva appunto come un prodotto italiano.
Ingredienti di scarsa qualità, lievitazioni accelerate, rapporto inesistete con i clienti, sfruttamento del lavoro. E’ un impero del male, gastronomicamente parlando si intende, che si sbriciola.
Ma ecco il pezzo dell’Agenzia Ag che racconta come sono andate le cose.
Aveva fatto della vita “unboxed”, non inscatolata, il proprio slogan: non scegliete noi solo per la pizza italiana, diceva il claim, ma per il nostro modo di essere, perche’ “noi rendiamo felici le persone”. Adesso, dopo più di sessant’anni e 18 mila ristoranti aperti in cento Paesi, il gigante Pizza Hut chiude la saracinesca: la catena americana ha dichiarato bancarotta, messa in ginocchio dai debiti e stesa in modo definitivo dalla crisi legata alla pandemia da coronavirus.
E’ la fine di un’altra storia da sogno americano, cominciata nel ’58 quando i due fratelli Carney, Dan e Frank, si fecero prestare dalla madre 600 dollari per aprire un piccola rivendita a Wichita, Kansas, dove far gustare agli studenti il prodotto italiano più famoso al mondo: la pizza. Dan e Frank impararono in fretta: un anno dopo avevano aperto già il secondo ristorante, a Topeka, sempre nel Kansas, e poi un altro ancora, e avviato, per primi, le consegne a domicilio.
Neanche vent’anni dopo, nel ’77, Pizza Hut contava 4 mila ristoranti. I fratelli, a neanche cinquant’anni, vendettero tutto alla PepsiCo per più di 300 milioni di dollari. Frank rimase presidente per poi lanciare una nuova catena, Papa John’s, in modo un po’ istrionico: si presento’ all’assemblea degli azionisti di Pizza Hut con una vivace maglietta con scritto “Scusate, ragazzi, ho trovato una pizza migliore”.
In realtà il vecchio brand resse la concorrenza, conquistando con una nuova proprietà, la Yum, legata al gruppo Npc International, una serie di primati: prima catena con testimonial Ringo Starr e la ex moglie di Donald Trump, Ivana, prima a offrire un paio di occhiali da sole ispirati al film “Ritorno al futuro”, prima ad andare su Facebook, a lanciare una app su iPhone e a entrare nella console dei giocatori di videogames che così potevano ordinare senza smettere di giocare.
Due anni fa l’ultimo colpo: sponsor ufficiale della Nfl, il campionato di football più seguito d’America. Ma, alla luce dei fatti, era stato un disperato rilancio per salvare i conti già in crisi da anni: il deficit del gruppo è salito a quasi un miliardo di dollari.
Il lockdown legato alla pandemia ha assestato il colpo finale. Negli ultimi due mesi hanno presentato istanza di fallimento altre catene, che vanno dalla ristorazione al fitness. Pizza Hut è, però, il marchio a cui erano legati milioni di americani. Da ora in poi chi cercherà una vita “non inscatolata”, ordinando un trancio di pizza, dovrà cercare sul cellulare un altro nome.