Piazza Duomo ad Alba: Enrico Crippa e i colori
di Fabrizio Scarpato
Piazza Duomo ad Alba. I colori. Basta seguire i colori. E lasciarsi prendere per mano.
Magenta, per esempio: la parete che contorna l’ingresso è magenta, che poi è colore complementare del verde. Stanno bene insieme, insomma, non si disturbano, e nemmeno si confondono. Ci sarà una ragione se anche a Wimbledon hanno messo insieme due colori simili nel brand. E sarà la splendida giornata di sole, ma tra tutti i colori che arrivano sulla tavola, il verde predomina: verde come verdure, come orto, i famosi orti di Enrico Crippa.
E poi c’è il rosa della sala affrescata, che ricorda i sakura giapponesi, solo che qui l’hanami è perenne, e ti avvolge in una atmosfera di pace e laboriosa tranquillità.
Così, lasciata la Panda rossa poco distante, attraverso in tuffo il magenta e salgo due rampe di scale coi gradini in pietra: il ricordo va a una casa di ringhiera di viale Regina Margherita a Torino, una vita fa. Piemonte, quindi.
Prima ancora di sederti al tavolo, accanto alla finestra che spazia sulla facciata del Duomo di Alba e sulla piazza sottostante, hai già messo insieme buona parte dei riferimenti possibili, quasi tutte i segnali da cogliere nel pranzo che ci aspetta.
Magenta, scale di ringhiera e rosa, quello che vedi: vegetale, territorio, Giappone, le suggestioni.
Certo, va detto che mi sono facilitato la vita prenotando un menu Discover Piazza Duomo, quattro piatti a mano libera, concordando solo pesce e verdure: ma il benvenuto è l’Antipasto piemontese, e in un baleno la tavola si riempie di ciotole, piattini e fisarmoniche di cartoncini ecru che ricordano gli origami, con bocconi tutti colorati, letteralmente fioriti, ebbene sì, e immancabilmente, prevalentemente verdi. Il servizio, oltre che professionale e comunicativo, è assolutamente geometrico, calibrato. La tavola luccica, lampeggia di colori, come attraverso un filtro cross-screen, e credo che ogni riferimento alla cucina kaiseki non sia affatto casuale. Ricordare tutto è impossibile, anzi il bello, il fanciullesco è proprio saltabeccare qua e là, domandarsi cos’è, sospendere per ricominciare, flipperando con le papille, in una specie di corsa a perdifiato nei campi.
Tra tartellette, wafer, baci di dama, cavoli, furikake e zucchine, tre o quattro cose emergono come piatti definiti e conclusi: il radicchio in salsa verde, la zucca marinata, il salmone velato di verde e il cracker di erbe, fiori e formaggi, instagrammabile, zoomabile, indimenticabile.
Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi… Battisti non c’entra, ma sul menu c’era scritto: vorrei…, proprio coi puntini puntini. Insomma se vuoi puoi aggiungere l’Insalata 21…31…41…51, puntini anche qui. Lo faccio, ovviamente, senza puntini di sospensione, anzi con decisione programmata.
Siamo arrivati a più di 120 erbe: un castello verde fiorito che crolla sotto le pinzette in dotazione. Prima erbe e fiori crudi, piccanti, speziati, aromatici, poi foglie più tenere condite con olio, poi quelle più grandi, sul fondo, con semi di sesamo, gallette e una punta di aceto di barolo. Mangi, bruchi, abbatti, cerchi, sfrondi e non sai perché. Non è un’insalata, è una seduta psicanalitica, una regressione antropologica, un buco nero vegetale che risucchia ogni miserrima misticanza precedente. Poi il sommommolo finale: il brodo dashi nel piattino, là sotto, alla fine di tutto, un cenno di scorza di mandarino che galleggia felice. Una bordata di freschezza ed energia, un sorso assoluto, stordente, ma anche la certificazione che arrivare fin qui, la Panda rossa a fare gincane lungo le autostrade liguri-piemontesi, è davvero valsa la pena.
Quanto a emozioni e rimbalzi visivi potresti anche ritenerti soddisfatto: invece devi ancora cominciare. I due piatti di pesce, antipasto e seconda portata, sono Mazzancolle e zucchine e Branzino e cipollotti.
Quando si dice il dono della sintesi. Entrambi sono piatti-sorpresa. Il primo si presenta come una testuggine di zucchine perfettamente tagliate che nasconde le mazzancolle e la loro bisque: al primo tocco è una esplosione di profumi e colori, con i crostacei consistenti e di morso.
Anche il trancio di branzino, avvolto nelle foglie verde glauco del cipollotto, è nascosto sotto un sottilissimo velo variopinto (ricordo di “quel” Raviolo aperto?) e finito al tavolo con una salsa di bulbo, fresca e aromatica. Insomma anziché certi effetti trompe-l’oeil, si preferisce lasciare spazio alla sorpresa, quasi che le pietanze fossero regali preziosi celati all’interno di una sorta di scrigno naturale. I sapori sono leggibili, nitidi, tendenzialmente dolci: come in un impianto Hi-Fi stanno al centro, mentre tutt’intorno s’agita le sezione ritmica, le contrastanti note di piattini e bicchierini sparsi: scapece, brodi vegetali, gallette. Tutto in armonia, sapori e profumi avvertibili, precisi, collocabili nello spazio e sul palato, con altissima fedeltà.
Cucina di grande finezza, quindi, luminosa e discreta, nel senso di gentile, mai urlata. Sembra un ossimoro: una grande complessità ottenuta per sottrazione. Cioè mi rimbambisci di colori, sapori e profumi, ma ogni petalo, ogni filo d’erba, ogni ingrediente non potrebbe essere che lì dov’è, e soprattutto per quello che è, senza ridondanze.
Ecco, allora: qual è, lì nel mezzo, il ruolo di una Cacio e whisky? Spaghetti insomma, cacio e pepe, più un’effimera spruzzata di whisky torbato: impeccabili, minimalisti, bianchi. Pure troppo, rispetto al caleidoscopio precedente.
O forse proprio per questo, quasi che il bianco fosse una assenza cromatica, una pausa tra tutti colori, il bianco che tutti i colori comprende. O ancora una sorta di lavacro, una purificazione, una sottrazione fino ai minimi termini, il senso dello shiro giapponese. Ti persuadi, da appassionato di pasta secca (e sottolineo secca), che un piatto del genere in una tavola di questo livello non possa essere che un fatto degno di nota, ma d’altra parte sospetti che avendo scelto un menu destinato alla scoperta, un piatto più semplice possa costituire un riferimento noto, un’ancora di salvezza per l’avventore al primo impatto. Ragionamenti da fighetto, manco poi fossi chissà chi, tanto che forse quegli spaghetti potrebbero avere anche il compito di darmi la necessaria ridimensionata: infatti stanno lì, lì nel mezzo, a ricordarmi, esaltandolo, il ruolo da mediano che da una vita tocca alla pasta. Umile, appunto, ma insostituibile. Però, caspita, sono buoni, equilibrati, lucidi, dritti e nevrili nel loro nido: un piatto di pasta semplicemente perfetto, appunto, come volevasi dimostrare.
Summer Self, 2011, Francesco Clemente, è il dolce: vaniglia, pompelmo e lime, un sottilissimo cretto, venato d’oro, in diverse consistenze (biscotto, cioccolato bianco…)
Ma soprattutto è screziato di rosa acceso, come il sorbetto di pompelmo, ovviamente rosa, servito lì accanto, come un infuso di menta e lime messo lì apposta per giocare con le papille, come le pareti di questa stanza, dipinta proprio da Francesco Clemente: un tralcio che annoda ballerini, doni, velieri, arnesi e animali fino a farli confluire in un mappamondo avvolto in una foglia di vite. Un simbolo delle Langhe, Piazza Duomo come approdo finale, dopo lunghi viaggi.
Madame? Monsieur? Il territorio, o giù di lì, però non ci ha mai abbandonato, e torna prepotente con la piccola pasticceria: una buonissima torta alle nocciole, praline di cioccolato, cremini, il latte più… (rum?) e mille altre cose.
Assecondo il testa coda planetario con un caffè Kopi Luwak Wild, indonesiano, di fatto quasi agli antipodi.
Enrico Crippa ci saluta, ha un pensiero per noi: ha il fisico da ciclista, asciutto, e gesti lenti, misurati, essenziali. Gli brillano gli occhi solo a descrivermi certe tipologie di zucchine che abbiamo assaggiato durante il pranzo: consistenze, tagli, colori, stagioni e vocazioni diverse.
Non so perché ma lo saluto con una sorta di inchino, flettendo leggermente il capo.
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