Parmigiano Reggiano Premium 40 mesi. Ma quando conviene invecchiare un formaggio?
di Roberto Rubino
presidente Anfosc*
Il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha lanciato, in una sede prestigiosa, il Museo Ferrari di Maranello, il progetto Premium 40 mesi. Sappiamo che il PR può essere immesso sul mercato solo dopo 12 mesi di stagionatura e che non c’è un limite massimo. Attualmente in molte gastronomie, soprattutto del Nord, c’è la moda di mettere in vendita PR con 30, 40, 50 e anche 60 mesi. Con prezzi evidentemente diversi. E allora dov’è la novità? Che per la prima volta il Consorzio del Parmigiano Reggiano accetta che si possa arrivare ad avere più di una categoria di livelli qualitativi.
E visto che la strada è già abbozzata e che il messaggio funziona, la posizione dell’asticella a 40 mesi è sembrata la soluzione più indolore, forse quella che potrebbe permettere di aumentare il prestigio di questo formaggio o almeno gli spazi di mercato.
Ma la stagionatura è un valore aggiunto? E se sì, quale è il periodo migliore per poterne gustare le caratteristiche organolettiche? E poi, tutti i formaggi si possono stagionare? Nel mondo caseario il tema è stato poco affrontato, tanto che l’estremizzazione dell’età spesso è solo dovuta o a uno sfizio del produttore o a un obbligo, perché il mercato è fermo. In questo caso, il riferimento è al mondo del vino, dove l’affinamento è un’arte e gli studi sono una enormità. Ma tutti i vini si possono invecchiare? Certo che no, solo quelli che hanno un importante corredo fenolico, che dà corpo al vino e di componenti volatili, responsabili delle note odorose. Anche nell’ambito dello stesso vitigno. Perché c’è bisogno di invecchiare questi vini? Perché i fenoli e soprattutto i tannini nella prima fase danno ruvidezza al vino, c’è bisogno di processi chimici, della polimerizzazione perché il vino possa acquistare morbidezza e struttura. I disciplinari dei vari vini decidono il limite minimo di invecchiamento ma non il massimo. Ci sono bottiglie che sono perfette anche dopo cento anni e alcune che dopo pochi anni già danno segnali di allarme. Tutto dipende dalla tecnica di produzione e dal contenuto delle componenti volatili e fisse.
E nei formaggi? Sulle note odorose gli studi confermano che il flavour, l’odore del formaggio, dipende dalle componenti volatili. Ma rispetto al vino, il formaggio ha qualche problema in più, sia perché è solido e sia perché il trattamento termico a cui viene sottoposto il latte e la cottura poi della cagliata ne deprimono il contenuto, caratteristiche queste che ne rallentano la liberazione nell’aria. Ecco perché, per sentire l’odore, è sempre meglio spezzare la fetta di formaggio. Quindi, sull’odore il meccanismo è lo stesso, anche se cambia il contenuto delle singole molecole.
E il gusto, il corpo? Perché, quando mettiamo in bocca un formaggio, per alcuni il gusto scompare subito dalla bocca e per altri dura tantissimo tanto che devi far ricorso alle miracolose bollicine per riprendere la degustazione? Quali sono queste molecole, cosa analizziamo e misuriamo se vogliamo conoscere il livello del gusto? Proviamo prima a dire cosa non è. Nel latte c’è soprattutto grasso e proteine. I tomi universitari ci dicono che la proteolisi e la lipolisi sono alla base delle trasformazioni che intervengono nei processi di maturazione e che sono anche i responsabili dell’aroma.
Infatti il comunicato stampa del Consorzio dice che il PR è molto apprezzato nel mondo: come ingrediente per dare un tocco di umami ai piatti. Solo la degustazione in purezza, tuttavia, riesce a trasferire al naso e al palato tutta la complessità e le caratteristiche organolettiche di questo formaggio: dalle note speziate, in particolare noce moscata e pepe, a quelle di frutta secca, fino al brodo di carne. Tutte note odorose e gustative che fanno riferimento alla proteolisi. Ma il grasso è una molecola inodore e insapore. Se così non fosse, tutti i burri sarebbero uguali, perché hanno lo stesso contenuto di grasso. Invece fra un burro di Alta Qualità e un burro da pascolo c’è un abisso. Ma nel burro non ci sono nemmeno proteine, quindi quel gusto intenso, ampio e variegato non dipende dalle proteine e né dal grasso. Non solo. Ma poi tutti i formaggi hanno più o meno lo stesso contenuto di grasso e di proteina. Quindi, se l’aroma dipendesse dalla proteolisi e dalla lipolisi, avrebbero tutti lo stesso aroma. Possibile che tutti i PR siano uguali, sia quelli prodotti in pianura che quelli in montagna? E quindi, tutti si possono stagionare? E come facciamo a dirlo se non sappiamo quali sono le molecole responsabili del gusto e della “tenuta” del formaggio nel corso della stagionatura?
Quindi escludiamo la lipolisi e la proteolisi. Restano i polifenoli quali responsabili del gusto, per il semplice motivo che le regole della natura valgono per tutti e, quindi, se sono queste molecole a dare corpo al vino, la stessa funzione sarà svolta nei formaggi, nella frutta, ni cereali ecc. Nel settore caseario le ricerche sulle note odorose sono tantissime, alcune per la verità hanno riguardato anche i polifenoli ma solo per valutarne il valore antiossidante. Non gli vengono attribuite responsabilità sul gusto. E comunque molte di queste ricerche, mi riferisco soprattutto a quelle fatte dal Corfilac di Ragusa su formaggi tipo Tuma Persa o Ragusano, hanno dimostrato che già a partire dall’anno di stagionatura il numero delle note odorose si riduce. Ma basta degustare con attenzione un qualsiasi formaggio d’alpeggio, dal caciocavallo podolico, alla Fontina, o il Vezzena e il Formai dei Mut per vedere che, dopo l’anno, l’aroma diventa sì più intenso ma a scapito della variabilità, della freschezza, della complessità. Il formaggio molto invecchiato è più chiuso, più monotono, più forte. Certo, può anche piacere di più a qualcuno, ma non si può dire che sia migliorato. Io in cantina ho tenuto caciocavalli podolici fino a 8 anni, ma se voglio godermene uno nella sua pienezza, preferisco non arrivare all’anno.
E comunque, siccome il livello dei polifenoli è direttamente correlato con la quantità di erba e di erbe diverse che l’animale mangia, e siccome non tutte le stalle hanno le stesse razioni alimentari, va da sé che il PR non è tutto uguale. Quindi non tutte le forme si prestano alla stagionatura. Invece il Consorzio annuncia che già oltre 50 caseifici hanno annunciato di voler partecipare al progetto. A prescindere dalla qualità del latte.
I vertici del Consorzio hanno una lunga storia di collaborazione con il Comtè, formaggio del Jura francese, considerato un po’ l’omologo d’oltralpe del Parmigiano. Magari lo fosse! Potrebbero prendere esempio da loro su almeno due punti. Il disciplinare del Comtè prevede due livelli qualitativi, indicati sulla costa del formaggio con una striscia verde o marrone. Pensando che la differenza di colore stesse ad indicare la provenienza del latte, verde se pascolo, marrone se stalla, qualche anno fa ne chiesi conferma ad Arnaud, uno dei più grandi affinatori di Comtè e, al tempo, presidente dell’INAO. No, mi rispose, ogni produttore, dopo una attenta valutazione, decide in quale fascia rientra quel lotto. Non potevo non rispondergli: e se imbroglia? Dopo 3 controlli negativi, si può dimenticare la DOP, rispose. Ecco un buon esempio, peraltro indolore, perché non costerebbe niente, di politica di sviluppo. Anche perché credo che il Parmigiano non sia tutto uguale, so di aziende di montagna che hanno un rapporto foraggio/concentrato di 70/30 e forse 80/20. Ma c’è ancora un altro fattore che potrebbe essere inserito senza eccessivi problemi: l’uso dei concentrati. In Francia ormai quasi tutti i disciplinari delle DOP hanno posto un limite all’uso dei mangimi, fissandone il livello a 1800 kg all’anno per vacca. Il che significa poco più di 5 kg al giorno. Siccome il disciplinare del Parmigiano impone un rapporto foraggio /concentrato di 50/50, va da sé che le vacche ricevono almeno 10 kg di mangime a testa al giorno. Cioè, almeno il doppio. E siccome i mangimi hanno un effetto diluizione sulle molecole, sarà chiaro che il contenuto di polifenoli e di componenti volatili sarà più che dimezzato. Con evidenti ripercussioni sulla stagionatura.
Ecco, i produttori potrebbero introdurre queste due novità senza colpo ferire e senza costi. E i vantaggi sarebbero enormi per tutti. Per i produttori e soprattutto per i consumatori. Ma il mito della caverna di Platone a sempre lì a ricordarci che è inutile raccontare che quelle ombre sono semplicemente delle persone. Meglio la stagionatura estrema!
2 Commenti
I commenti sono chiusi.
A parte la sapienza, che deriva da anni di “onesto”, duro lavoro sul campo, lontano da clientele e carriere, che gli permettono di dare “a ciascuno il suo,”, pochi come lui riescono a spiegare e farci capire perchè e in che modo mangiare e gustare. Che i suoi chiarimenti, il disvelarsi del perchè le cose vanno in un certo modo, sia nel giusto, è testimoniato dal fatto che nessuno, dei tanti, a diversi livelli, che sono, o dovrebbero essere, chiamati in causa, si azzarda a dire la sua di fronte alle tante “provocazioni” delle quali sono piene le sue riflessioni, Però e per fortuna, la sua vox non clamat in deserto perchè intorno a se ha ormai una squadra di “onesti” personaggi, tecnici, ma sopratutto allevatori-agricoltori, chef, gourmet, ecc. convinti della giustezza delle sue tesi perchè hanno trovato nelle materue prime, nei prodotti trasformati, nei piatti, la conferma di ciò….che afferma. Vai avanti Robino!!
Grazie maestro per questa lectio magistrali condivisibile in toto.Viene naturale commentare:niente di nuovo sotto il sole che invece fa la differenza tra un formaggio ottenuto con latte di animale al pascolo da un altro tenuto in stalla e nutrito prevalentemente a mangime.Ad maiora semper da FM