Parla Ciro Salvo: la frutta sulla pizza? Mamma mia proprio no. Il futuro? La tradizione ben eseguita
Rilanciamo la bella intervista che Maria Chiara Aulisio ha fatto nella sua pagina settimanale sul Mattino a Ciro Salvo di 50 Kalò, primo per due anni in Europa e sempre nei primi dieci per 50 Top Pizza.
di Maria Chiara Aulisio
Una cosa che non metterebbe mai sulla pizza? La frutta. Poi – volendo – per quanto riguarda mais, panna, wurstel e roba(ccia) simile, “ci possiamo pure ragionare, ma pere, mele, banane, pezzi d’ananas o, peggio, fette di kiwi, proprio no”. Ciro Salvo – una media di ottomila pizze alla settimana, 120 dipendenti, un locale anche a Londra e un fatturato, a dire poco, invidiabile – non ha dubbi: “più la pizza è classica, meglio è. Parola di “50 Kalò”.
Niente frutta, insomma.
«Per carità».
Preferisce il wurstel?
«Mamma mia, no. Però non metto limiti. Le mode cambiano e i gusti pure. Quello che oggi mi sembra impossibile domani potrebbe non esserlo».
Si spieghi meglio.
«L’ipotesi di una pizza con il wurstel, o con il mais, tanto per fare un esempio, non la escudo categoricamente: la frutta invece mai nella vita. Trovo che sia un connubio impossibile».
Lei invece che pizza mangia?
«O la Margherita o un bel ripieno fritto. Sono sempre stato un sostenitore delle pizze non troppo elaborate: la tradizione è la meglio cosa che c’è».
Però qualche novità ogni tanto ci vuole.
«Certo. E non le faccio mancare ma sempre nei limiti della “decenza”. La pizza è una cosa seria».
Qual è l’ultima arrivata?
«Per la verità sono sette. Sette pizze vegetali. In alcuni casi pure senza mozzarella. Straordinarie, fidatevi».
La Napoli di Ciro Salvo.
«Quella di piazza Sannazaro».
50 Kalò?
«Grande avventura».
Racconti.
«Vengo da tre generazioni di pizzaioli. L’impasto lo tengo nel dna. Da bambino il mio gioco preferito era mischiare acqua e farina mentre guardavo papà che faceva le pizze».
A proposito di suo padre.
«Se n’è andato troppo presto. Aveva solo 58 anni. Con i miei due fratelli – eravamo tutti ventenni – decidemmo di trasferire la sua storica pizzeria da Portici a San Giorgio a Cremano. Rilevammo un locale, un po’ sfigato per la verità, ma non ci importava».
Un po’ sfigato?
«Non era un granché. Nè il posto e nemmeno la zona. Ricordo che lo pagammo 20mila euro. E però nel giro di qualche settimana c’era la fila per entrare. In quegli anni poi non esistevano i social, i blogger, niente di niente. Solo qualità e passaparola».
Un successo, insomma.
«Immediato. Sapevamo il fatto nostro».
Tre fratelli, tre pizziaoli doc.
«Due pizzaioli e un ingegnere per la verità. O meglio: ingegnere e pizzaiolo».
Di chi parla?
«Di Francesco, il più grande. A scuola era un genio. A 26 anni si laureò in Ingegneria alla Federico II con 110 e lode. Poi però quando morì papà lasciò il suo lavoro e venne con noi a San Giorgio».
Passiamo ai numeri: in una serata quante pizze si possono fare?
«Uno bravo può arrivare pure a seicento. Sempre con il fornaio accanto ovviamente».
Chi è il fornaio?
«L’addetto alla cottura. Il pizzaiolo lavora sempre in coppia. E se la coppia funziona, si vola. Dico sempre che il comandante si vede quando il mare è agitato, a fa’ ‘na pizza co’ calma so’ bravi tutti».
E lei? Quante ne fa di pizze?
«50 Kalò registra numeri che richiedono un lavoro di squadra. Solo il lunedì, per tradizione giornata “morta”, ne sforniamo almeno un migliaio. Per quanto mi riguarda è adrenalina pura».
In che senso?
«Più vedo gente e meglio lavoro. A piazza Sannazaro viaggiamo a una media di sette/ottomila pizze alla settimana».
Facciamo un passo indietro e torniamo alla pizzeria “sfigata”.
«Abbiamo lavorato lì sei anni. Poi decidemmo di separarci, questioni personali. Mi ritrovai solo e dovevo ricominciare da zero».
Disoccupato?
«Quello mai. Andai a lavorare quasi subito da “Massé” a Torre Annunziata. Dopo qualche settimana cominciò a arrivare un sacco di gente, ancora una volta senza social e senza alcun tipo di pubblicità».
Altro successo, quindi.
«Merito del mio impasto».
Speciale?
«Diciamo che ho rivoluzionato la “ricetta” di famiglia. Volevo qualcosa in più rispetto a quello che preparava mio padre. Cercavo un metodo nuovo, identitario, che potesse rappresentarmi in maniera innovativa».
L’ha trovato?
«Certo».
Qual è la caratteristica?
«La super idratazione».
Che cosa vuol dire?
«Lavorare la farina con una percentuale di acqua superiore alla media. Il risultato è una pizza estremamente soffice, morbida e digeribile. Ma bisogna fare molta attenzione: un impasto così richiede una mano assai allenata altrimenti c’è il rischio di incollare la pizza al banco. E da 50 Kalò non deve mai succedere».
“50 Kalò”, che cosa vuol dire?
«Torniamo sempre all’impasto. Nel nostro gergo si chiama “50”. Quando ci parliamo tra noi non diciamo “com’è l’impasto?” ma “comm è ‘o 50?”. E poi “kalò”, pure questo un termine nostro che, però, ha radici antiche. Viene dal greco: kalos, buono».
Quindi esiste un linguaggio dei pizzaioli?
«Il forno è sempre stato in bella vista: nelle pizzerie di una volta si parlava in codice per non farsi capire dai clienti. Oggi si usa meno ma fa parte della nostra tradizione e bisogna conoscerla. Lo dico sempre ai “miei” ragazzi».
Che cosa?
«Sono tre le regole del successo, anzi quattro: impegno, passione, rispetto delle antiche tradizioni e una botta di fortuna. Che non guasta mai».