Nove vini eccezionali dal Merano Wine Festival 2021
di Raffaele Mosca
Di nuovo in questa cittadina da fiaba, stretta tra le Alpi già imbiancate e attraversata dal biondo Passirio che, poco fuori dal centro abitato, confluisce nell’Adige. Uno scenario dominato dalla vigna, che appare appena fuori del centro abitato e occupa tutta la fascia bassa dei monti.
Un visionario, Helmut Kocher, ha trasformato Merano in una delle capitali del vino italiano, partendo nel 1992 con un piccolo evento che poi è cresciuto a dismisura, fino a diventare il secondo per importanza dopo Vinitaly. Una rassegna, il suo Merano Wine Festival, che, nell’arco di un trentennio, è divenuta sinonimo di organizzazione impeccabile – germanica più che italica – e che anche quest’anno, nonostante le restrizioni Covid e un aumento repentino dei casi a pochi giorni dall’inizio, è riuscita ad arrivare a conclusione senza intoppi.
La mia è stata una toccata e fuga, ma ho cercato di raccogliere le opinioni dei produttori sulla kermesse. La sensazione generale è che sia partita in tono minore, con un’affluenza abbastanza scarsa nella giornata di venerdì, per poi migliorare a partire dalla mattinata di Sabato ed esplodere nel pomeriggio di Domenica, nel corso del quale sono stati contingentati gli ingressi alle sale.
Detto questo, le aziende presenti erano tantissime: non ci sono state grandi diserzioni come negli altri eventi del post-pandemia. Per assaggiare tutto, ci sarebbe voluto almeno un mesetto; io, nel mio piccolo, mi sono dato abbastanza da fare e questi qui sotto sono i vini più entusiasmanti che sono riuscito ad assaggiare.
Girlan – Alto Adige Pinot Nero Trattmann Riserva
Da dove cominciare se non dai vini di casa? Faccio un giro di prima mattina nella parte del salone dedicata all’Alto Adige e tra bianchi indubbiamente godibili – ma molto simili tra di loro – trovo una verticale di uno dei pochissimi Pinot Noir sudtirolesi che reggono il confronto con la Borgogna. Il Trattmann 2018, prodotto con uve dal Grand Cru Mazzon di Egna e da un altro vigneto a Cornaiano, è stato vinificato con una quota di grappoli interi e tira fuori aromi “flamboyant” di fragolina e creme de cassis da macerazione semi-carbonica, rosa canina e tè matcha, un tocco di spezie orientali a la Vosne Romaneè. E’ soave e longilineo, arioso e seducente, calibrato da un cenno di tannino da raspo che dà forza a una progressione irresistibilmente suadente. Più cupo, spigoloso e sorprendentemente giovanile il 2015: meglio scordarselo in cantina. Maturo e boschivo, goloso e tridimensionale il 2012, che allunga su toni balsamici e di torrefazione di rara finezza.
Cantine Morone – Barbera del Sannio Nero Piana 2020
Una versione centratissima di una varietà del beneventano che con la Barbera piemontese non ha niente a che fare – meglio chiamarla Camaiola – e che si sta accodando al Piedirosso nella rivoluzione dei vini leggeri. Fa forza sull’immediatezza, su di una golosità fruttata mai banale, con qualche rintocco amarognolo che rafforza la fluidità di beva, la giusta acidità e un cenno di speziatura dato dal breve passaggio in barrique. L’ho assaggiata alla Casa Sannio nel fuorisalone davanti al Kursaal, dove il consorzio ha tenuto masterclass, degustazioni, incontri con produttori di altre zone tutti in full booking. Ha fatto coppia con un fusillo casereccio al ragù di marchigiana.
Zorzettig – Friuli Colli Orientali Schioppettino Myò Vigneti di Spessa
Fuori salone, a cena con Annalisa Zorzettig da Kallmunz, in Piazza della Rena. Friuli Venezia Giulia e Alto Adige sono i territori chiave del nostro Nord-Est e si potrebbe dire che esiste un fil rouge che lega i bianchi delle due regioni, ma, ad essere onesti, le differenze sono molte di più delle assonanze. E siccome dei bianchi friulani si parla tanto, preferisco scrivere due righe sullo Schioppettino, versione raffinata di un vitigno che meriterebbe più attenzione. Di rosa rossa e di vetiver è la nota di testa; poi emerge un tripudio di spezie – coriandolo, cardamomo, cannella, noce moscata e via discorrendo – che dà grinta e sapore ad un sorso mai troppo muscolare, anzi fragrante e grintoso, ma comunque capace di dar testa al filetto di cervo servito in abbinamento.
Claudio Cipressi – Tintilia Rosato Collequinto 2019
Il maestro della Tintilia, l’uomo che ha dato nuova vita all’ autoctono più interessante del Molise, oramai diffuso in tutta la regione, ma capace di dare risultati degni di nota solamente in comprensori pedemontani come quello di San Felice del Molise, dove ha sede l’azienda. Il suo Macchiarossa è una certezza, ma non bisogna sottovalutare questo fratellino minore: un rosato con gli attributi, per niente modaiolo, carico nel colore e succoso di melagrana e fragola candonga, paprika ed erbe aromatiche. Non è di certo il classico rosatino effimero da sbicchierare prima del pasto: proprio come il Cerasuolo d’Abruzzo, dà il meglio di sé in tavola, magari con un brodetto alla termolese, una chitarrina al ragù, una fetta di pane con caciocavallo di Agnone e salsiccia secca.
Elena Walch – Alto Adige Beyond the Clouds 2019
Lo dicono in tanti – non solo il sottoscritto – che in Italia ci sono troppi Chardonnay malfatti, oberati dal legno o semplicemente banali. Purtroppo neanche l’Alto Adige fa eccezione in questo frangente: il più delle volte si fa meglio a scegliere il Pinot Bianco, che di media dà vini meno impegnativi e allo stesso tempo più territoriali. Ma questa versione del Cru della famiglia Walch, servita da Karoline Walch, figlia di Elena, è un’eccezione alla regola che ti fa capire che il problema sta nel metodo e non nella vocazione dei vigneti. Karoline e sua sorella Julia hanno convinto la madre a ridurre la quota di barrique nuove e a scegliere legni con una tostatura più lunga (e quindi meno marcante). Il risultato è un 2019 si burroso e speziato, si tropicale, ma anche fresco di erbe alpine, zenzero, rosa gialla e biancospino. La bocca è degna di un buon Meursault: ampia, rassicurante, cremosa e mielata, ma tenuta in equilibrio da una verve acido-sapida travolgente che dà profondità, incisività e lo rende un partito ideale per i lunghi invecchiamenti.
Fattoria Gaglierano – Abruzzo Pecorino 2018
Un salto nel padiglione Bio & Dynamica e vengo catapultato nelle mie terre: per la precisione siamo a Città Sant’Angelo, non lontani da Loreto Aprutino, ma più vicino alla costa pescarese. Fattoria Gaglierano è un’azienda che, oltre al vino, produce anche salumi artigianali. E dal momento che tra i prodotti in catalogo c’è anche il guanciale, mi sento di consigliare il loro Pecorino come buon compagno per gricia e carbonara. Ottenuto da fermentazione spontanea di uve biologiche, affina per otto mesi in botte grande e, al suo esordio, tira fuori un mix allettante di zafferano e pepe bianco, miele d’acacia e pietra focaia. Ha più corpo della maggioranza dei vini prodotti da questa varietà, ma non meno nerbo, anzi convince proprio per la chiusura dritta, asciutta, che fa piazza pulita.
Bocale – Sagrantino di Montefalco
Dall’Abruzzo a Valentini: non quello loretese, ma l’omonimo produttore umbro, già sindaco di Montefalco e titolare dal 2002 di un’azienda che fa vini molto “nature”, da agricoltura biodinamica e senza additivi d’alcuna sorta. La verticale di tre annate del Sagrantino dimostra che bisogna dare tempo al tempo: la 2010 ha perso l’irruenza tannica della prima ora e comincia a regalare soddisfazioni senza se e senza ma, con un tripudio di aromi che spaziano dai botanicals da Vermouth alla visciolata e un sorso sontuoso, ancora mordente, ma non rugoso. Il 2016 s’incammina sulla stessa strada: anche più fine nei profumi, ma ancora molto nervoso in bocca. Il 2017, invece, ha quel tocco di morbidezza in più dato dall’annata calda che lo renderà più facile da stappare ed abbinare nell’arco di due-tre anni.
Arnaldo Rivera – Barolo Monvigliero
Di aziende langarole ce n’erano tante in sala, ma nessuna mi ha colpito più di Terre del Barolo, cantina sociale che, in questi ultimi anni, ha cambiato radicalmente volto con la linea Arnaldo Rivera. Dedicata al fondatore della cooperativa, nonché partigiano e sindaco di Castiglione Falletto nel dopoguerra, la gamma fa forza sulle migliori uve dai migliori vigneti dei soci conferenti. Non manca nemmeno il Monvigliero, Cru di Verduno ignorato fino a qualche anno fa e riscoperto grazie al successo di critica e di pubblico dei Baroli di Burlotto. Assaggiato in verticale, esprime tutta la souplesse quasi borgognona di un certo tipo di Barolo “di confine” che ha tratto grande vantaggio dalla riscoperta dei vini longilinei e aggraziati. Delle quattro annate in verticale, la 2016 è la più convincente: esordisce con una nota animale in stile Gevrey Chambertin, e poi ricordi di arancia rossa e ribes, erbe officinali ed humus che riecheggiano in un sorso né troppo austero, né troppo accomodante, ematico e balsamico con rintocco floreale che prolunga lo sviluppo. Segue a ruota una 2015 appena più larga e più fitta nella parte tannica, ma sempre soave e raffinata, carica di frutto croccante, immaturo e affumicata in chiusura. Non male neanche la 2014 – leggera e meno dettagliata, ma scorrevole ed equilibrata – mentre la 2017 è incentrata su di un frutto più dolce e bidimensionale, manca un po’ di profondità, ma ha il pregio d’essere perfettamente godibile e abbinabile seduta stante.
Gulfi – Neromaccarj
Ogni volta che assaggio vini della zona di Noto e Pachino, mi viene in mente la metafora del calabrone che non potrebbe volare, ma non lo sa e quindi vola lo stesso. E’ il miglior modo di spiegare il paradosso del Nero d’Avola prodotto nella zona più arida e meridionale d’Europa, a pochi metri sul livello del mare e a qualche chilometro dalle dune di Vendicari, che, nonostante tutto, riesce sempre a convincere per equilibrio e senso della misura, perché nei secoli ha sviluppato un rapporto simbiotico con il suolo e con l’ambiente circostante. Il Neromaccarj della famiglia Catania è il più grande vino prodotto da quelle parti: pazzescamente integro in annata 2017, profumato di giuggiola e melagrana, cappero selvatico, timo e origano, e reattivo al palato, salato, piccante, tannico quanto basta e lungo nei rimandi struggenti alla macchia mediterranea. Non meno fascinoso il 2002, figlio di un millesimo pessimo per la penisola e ottimo sull’isola, che deflagra su toni di radici e carrube, sandalo e incenso, tartufo e crema di caffè, e rimane godibile ed equilibrato, non giovanile, ma nemmeno stanco.
All’appello manca la Toscana, alla quale vale la pena di dedicare un capitolo a parte. Seguirà un articolo sui mostri sacri di una regione che, in qualunque degustazione, riesce sempre a distinguersi.