Nicolas Joly con Fabio Luglio all’Enoteca La Botte: dibattito e scintille con Luigi Moio
di Tonia Credendino
« Le risque aujourd’hui est que la biodynamie ne devienne une recette appliquée mécaniquement. Alors que pour être pleinement là, qualitativement, elle a besoin de sentir l’impulsion de l’homme, sa créativité, ses forces de cœur. Seul celui qui habite sur place, celui qui ressent les nuances du lieu, peut progressivement faire des gestes justes, par sa présence et par sa pensée qui est aussi faire de fréquences et longueur d’ondes ». Nicolas JOLY
Precettore spirituale del bio dinamico, Nicolas Joly all’Enoteca La Botte in degustazione di Triple A, l’uomo che parla delle vigne come di esseri viventi, di eleganza delle radici, degli uccelli come creature più intelligenti degli uomini.
Titolare della Coulée de Serrant, presidente dell’associazione Renaissance des Appellations, autore del libro “Il vino tra cielo e terra”, giramondo per passione, nel suo bagaglio, l’arte di saper comprendere e utilizzare consapevolmente le forze che danno vita alla Terra.
Sfefano Bellotti di Cascina degli Ulivi, biodinamico da Novi Ligure, guida l’intervento, perentorio e diretto Nicolas esordisce affermando: “Quello che ci interessa per una comprensione profonda della pianta sono i processi che l’hanno creata, non la pianta in sé, per cogliere la vita profondamente, bisogna lasciare la materia e considerare il sistema solare e stellare che dona vita alla Terra”. Le chiavi d’accesso sono i rapporti di forza!!
Bizzarra verità, cimelio del marketing, rivelazioni oscure e dogmatiche, o semplicemente una moda europea?? A voi lascio la scelta, è noto, però, che la biodinamica è un’immensa porta aperta da Rudolf Steiner, per il quale “nulla s’impone alla pianta in modo cieco rispetto al resto, si accresce la sua acustica, la matrice energetica che l’ha modellata”. Oltre a recuperare pratiche tradizionali, quali il sovescio e la rotazione delle colture, l’agricoltura biodinamica si basa su una serie di preparati utilizzati in dosi omeopatiche, che funzionano come vere medicine per il terreno e per le piante, ne risulta un progressivo risanamento del terreno, con un aumento di humus stabile, e una qualità superiore dei prodotti.
Di certo, una pratica sostenibile, che mette tutti d’accordo verso un’agricoltura “durable”, il vero progresso, dice Bellotti “sta nel maturare la sensibilità di un vecchio mondo, diretti al futuro ma con un occhio di attenzione verso i saperi antichi”, “ritrovare un’agricoltura vera è il modo giusto per far decollare il paese”, niente di più attuale. Ma sarà il metodo giusto??
A sfatare il mito ci pensa il professor Moio, portavoce, probabilmente dei tanti produttori in sala, Emanuela Russo, Maria Ida Avallone, Antonio Papa, Manuela Piancastelli e altri, scontro tra filosofia e scienza che oltre a chiarire la “faccenda dei lieviti”, indigeno o selezionato, pone l’accento sullo svilimento del processo genetico come processo vitale da parte della biodinamica, Nicolas sostiene, infatti “la genetica diventerà utile all’uomo quando gli scienziati scopriranno le regole che l’hanno creata”. Il gene dunque come effige, inerme che non agisce se non ciò che lo circonda”. Luigi Moio rappresenta la ragione, “altro che sole e luna e forze energetiche la verità risiedono nella quotidiana lotta biologica e integrata” sostiene.
Sarà!!! E’ sicuramente discutibile come l’assaggio dei vini in degustazione, si parte con Filagnotti, Gavi docg di tassarolo, 2007 Cascina degli Ulivi, reduce da quattro anni di riposo in bottiglia si mostra con un’incredibile sapidità, buona, l’acidità, marcata la mineralità, oserei aggiungere, di “biodinamica franchezza”, non perfetto secondo Marco Ricciardi che aggiunge “spigoloso, dagli aromi inconsueti, leggermente ossidato, ben lontano dai canoni degustativi”, un vino risponde Bellotti che non ha subito l’ansia di perfezione ma spinto verso una direzione cosciente, tra quei vini che invecchiando, ringiovaniscono.
A seguire un rosso di Cascina degli Ulivi, Mounbè barbera piemonte doc, 2005, un vitigno spigoloso nei primi anni di vita che richiede lungo riposo se non tagli con altre uve, dichiara il produttore, l’evoluzione passa attraverso due anni di botte grande, uno in botte più piccola e tre/ quattro anni in bottiglia, un investimento notevole per la cantina.
Nicolas Joly ci porta, con le due etichette in degustazione, nella valle della Loira alla scoperta del Chenin Blanc, estremamente minerale, poco di fruttato e floreale, a discapito di un’elegante, di grande capacità interpretativa. Probabilmente fra le uve più sottovalutate dello scenario enologico mondiale, la caratteristica organolettica principale del Chenin Blanc è l’acidità – secondo solo al Riesling – una buccia sottile e una naturale quantità di zuccheri piuttosto elevata. In condizioni favorevoli, lo Chenin Blanc è molto sensibile agli effetti della muffa nobile, infatti, oltre ai tipici aromi conferiti dai suoi effetti, ritroviamo nel bicchiere, aromi di uva passa, marzapane, confettura di mele cotogne, miele e aromi che ricordano le spezie.
Les Vieux Clos 2009, Appellation Savennières, si presenta esile e magro, introverso rispetto al 2009, invece, più eloquente, suadente e avvolgente. Lo chenin, dice Nicolas in particolare per le annate in degustazione “è fatto di luce”, “è come un bambino difficile che se lo si prende per il verso giusto diventerà un genio”.
A seguire Coulèè de Serrant Appellation Coulée de Serrant monopole de la famille Joly, etichetta rappresentativa del percorso biodinamico fatto in quel di Savennières, la 2008 naso d’inesauribile complessità al palato morbido, ben mitigato da un’importante acidità che lascia presagire una lunga evoluzione nel tempo, confermata dal fratello minore la 2009, interessante nel colore, al naso intenso, esuberante al palato.
Al piatto la scelta della stella michelin Renato Martino del Vairo del Volturno, di portare in scena tre prodotti della natura semplici e gustosi, il pomodorino candito con mousse di ricotta di pecora, polvere di ortiche e sfoglia di mais, mantecato di baccalà con olio extravergine, salsa di scarole, cipolla rossa e coriandolo, crema di patate del matese, tartufo estivo e salsa di prezzemolo.
5 Commenti
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Due piccole considerazioni, con leggerezza. La prima, riferendomi alle quattro righe iniziali, è che il ragionamento biodinamico parte da premesse condivisibil (l’importanza dell’uomo, del suo coraggio, delle sue scelte nel rispetto e nella conoscenza dell’ambiente e del proprio lavoro), segue con vini spesso apprezzabili, per finire sempre in vacca, vuoi con lo stabilire frequenze e lunghezze d’onda con le piante, vuoi col parlare con esse, vuoi col sottolineare l’influenza astrale, i corni di vacca primipara e così via. Sembra sempre ci sia la voglia di stupire, per cui dopo un ragionamento, magari espresso poeticamente, ma reale, si deve sempre porre l’asticella del discorso un po’ più in alto, esulando, spiazzando, con comportamenti alla fine snobistici, per quanto poco razionali.
La seconda considerazione è che Joly un sovescio lo dovrebbe fare ai propri calzini, o magari farci due chiacchiere per farli crescere meglio.
Penso che – per dirla in due parole, a colpi di accetta – il dibattito cresca sulla base di un misunderstanding, non so quanto casuale: ossia che la biodinamica sia una scienza, e non una filosofia… metafisica.
Personalmente, per pregiudizio inconscio (anch’io credo che alcune dichiarazione siano “potevamo stupirvi con effetti speciali” snob) o per casualità, avevo giusto letto qualcosa sul tema ai tempi del corso e negli anni bevuto, certo, vari vini cosiddetti biodinamici, ma sempre senza soffermarmi sulle caratteristiche specifiche che il “metodo” poteva aggiungere al prodotto.
Poi qualche mese orsono, reduce da un raid nel mio Salento dal quale riportavo un ingente bottino di guerra (circa 6 chili cozze pelose, ostriche imperiali, carapoti, noci bianche, gamberi rossi, etc etc.) un caro amico ospite della cenetta conseguente mi portò un paio di bottiglie di un bianco siciliano biodinamico. Sarà stato l’affetto o la competenza dell’amico, ma quella sera mi è parso di capire un pezzo di più della “questione”, ed in più il vino era ottimo!! Alla fine, per un profano come me, il punto principale è questo!
Forse quell’amico ero io ed il vino in questione era il Lolik di Guccione 2008, biodinamico da uve Trebbiano coltivato in Sicilia: un intreccio di note iodate, balsamiche, chiodo di garofano e mare.La 2007 era ancora meglio. Ma in definitiva, il discorso sul biodinamico si chiude dove si apre, e cioè, la filosofia è molto condivisibile ma se il prodotto finale è scarso, resta scarso. Nè aiuta dire che è meno scarso perchè naturale. La biodinamica è un punto di vista estremamente interessante che coinvolge riflessioni profonde tra l’uomo e la natura a partire dall’antroposofia steineriana ma alle volte l’applicazione pratica non è esattamente quello che ci aspettiamo nel bicchiere. Bisogna quindi avere un approccio sempre laico e dubitativo per trarne il meglio!
;-)
Infatti, Pepe. Una vita fa scrissi su questo blog cose come questa : “a me basterebbe che ogni vignaiolo presentasse il proprio vino e col vino le proprie idee, le proprie manie, i sogni, gli interessi. La propria vita, senza etichette. Mi piacerebbe si facessero vini, anche nuovi, di carattere, scontrosi o scorbutici, si portasse la gente in cantina e si rispettasse l’ambiente: vorrei si potesse parlare di vino, possibilmente buono, senza distinzioni che verrebbero subito strumentalizzate, esibite e in un attimo fagocitate, come tutte le mode”.
Non serve sbandierare, tantomeno fare proseliti alla causa, che poi non esiste, perché il “vino biodinamico” non esiste, esiste solo “l’uva biodinamica”, e non è poco, perché separa pubblico e privato, impedendo il proselitismo.