Nel fascino dell’antica Telesia il futuro del vitigno camaiola
di Pasquale Carlo
C’è un profondo ed inscindibile legame tra un territorio e i suoi vini. Un legame che affonda le proprie radici nella storia e che si alimenta costantemente del rapporto profondo tra la terra e l’uomo: si tratta di un’unione che si fonda sul rispetto della natura e dei suoi tempi, valorizzando così al massimo l’identità del territorio.
Oggi è praticamente impossibile tracciare collegamenti tra i vitigni moderni e quelli di età romana. Tuttavia, nel tentativo di individuare – nell’ambito del ‘Vigneto Sannio‘ – il terroir eletto per il vitigno camaiola, il percorso ha origine proprio al tempo dei Romani, ed in particolare dal nome di C. Cornelius Hermeros, un mercante pompeiano che trafficava beni in tutto il Mediterraneo. Dagli scavi effettuati nell’imponente città distrutta dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. sono venute alla luce alcune anfore riportanti il suo nome, sulle quali sono indicati i prodotti custoditi al loro interno. Tra questi il ‘Liquamen’ (l’antenato della colatura di alici) e i vini ‘Gauranum’ e ‘Telesinum’.
C’è un forte collegamento proprio tra il ‘Telesinum‘ e il vitigno camaiola, dovuto all’area di produzione e coltivazione. Il vino ‘Telesinum’ era prodotto nel territorio di Telesia, città romana di origine sannita, situata nel cuore della Valle Telesina, a metà strada tra i centri di San Salvatore Telesino e Telese Terme. La città sorgeva in una fertilissima pianura, in una posizione chiave del sistema viario del Sannio meridionale, essendo posta a metà strada fra Capua, Benevento e Venafro. In quest’area, intorno al III secolo a.C., la viticoltura era particolarmente fiorente, come testimonia anche l’atelier che sorgeva nella vicina Dugenta, in cui si producevano anfore “greco – italiche”, poi sostituite dalla Dressel 1, anfore utilizzate per un ampio mercato che abbracciava l’Inghilterra, la Gallia, la Spagna e le province nord-africane e orientali. Le origini sannite di Telesia raccontano di una viticoltura probabilmente florida già prima dei Romani, considerato che il capostipite dei Sanniti è Cato Sabus, indicato dal popolo degli Osci come “venerabile” e “piantatore di viti“.
Nel territorio di Telesia la pratica della viticoltura proseguì anche dopo la decadenza di Roma, dato che su queste terre regnarono per circa cinque secoli i Longobardi, popolo che ebbe grande rispetto per il vino, come testimoniano anche le leggi espressamente dedicate alla salvaguardia della viticoltura contenute nel monumentale Editto di Rotari o ‘Edictum Longobardorum’.
Telesia venne distrutta dall’invasione di Seodan (anno 860), che provocò lo spostamento degli abitanti in aree ritenute più sicure. Con l’arrivo dei Normanni, il centro del potere religioso si spostò nella zona sud dell’attuale abitato di Telese Terme. Nel frattempo, in territorio di San Salvatore Telesino, a poche centinaia di metri dall’anfiteatro della distrutta Telesia, sorse l’Abbazia benedettina del Santissimo Salvatore, con diverse grance che rivitalizzarono la valle del Calore anche nel settore vitivinicolo, considerato che quest’ordine ha fortemente contribuito anche allo sviluppo di nuove tecniche enologiche.
Di questa ininterrotta pratica testimonia il documento Assisa seu Statuta Civitatis Thelesiae, trascritto nel 1426 dal notaio Antonello da Cerreto e proveniente da un atto risalente ad un periodo precedente. In questo documento, alla voce “De bucturariis” si riportavano le tassazioni vigenti per smerciare vino nella città, che prevedano tariffe diverse per i produttori provenienti dalle varie località di produzione: ‘Amorosij Telesie’, ‘Sancti Salvatoris’, ‘Sorropache et Sanctii Iohannis’, ‘Pullyani’, ‘Veneris’ e ‘Ragete’.
Tuttavia, fu proprio in questo periodo che iniziò la decadenza della viticoltura in area telesina. Decadenza legata a due fenomeni: il clima e il terremoto. Dopo il fenomeno del riscaldamento medievale, a partire dal XIV secolo, nell’intera Europa si assistette ad un graduale abbassamento delle temperature, che perdurò per oltre cinque secoli. Questa Piccola Era Glaciale – come definita dagli studiosi del clima – toccò il culmine intorno al 1850, quando le temperature ripresero ad aumentare (periodo meteorologico che dura ancora oggi).
Questi mutamenti climatici ebbero ripercussioni ancora più marcate nell’area telesina, colpita dal tremendo terremoto del 1349. Gli effetti del sisma, che originò anche le acque solfuree telesine, contribuirono a creare un particolare microclima che in vaste aree rese impossibile le pratiche agricole, causando anche lo spopolamento della Telese medievale. La Statistica Murattiana di Terra di Lavoro (1811) racconta che i «Comuni di Amorosi, e Puglianello, più vicini ai fiumi, vanno soggetto a frequenti nebbie, nello stesso caso trovasi Castel Veneri, situato in basso fondo lungo un ruscello detto Seneta che nell’esta’ impaluda, infatti le sommità degli edifizj in questo luogo sono tutte annerite di licheni, e muschi». A causa di queste condizioni meteo, in queste realtà si respirava «un’aria non molto sana, anzi nell’està diviene micidiale». Ad infestare quest’atmosfera «concorrono il lago, le mofete, e le acque sulfuree sui squallidi campi della deserta Telese».
Lo scenario tornò a cambiare – con il mutare del clima – all’indomani dell’Unità di Italia. Nella seconda metà dell’Ottocento anche in queste zone iniziarono a registrarsi profonde trasformazioni nella coltivazione della Vitis vinifera, innescate dalla necessità di fare fronte all’arrivo di tre flagelli che misero seriamente a rischio la viticoltura: oidio (1845), fillossera (1854) e peronospora (1870). Contemporaneamente, grazie agli studi di Luigi Pasteur (iniziati nel 1863), si rivoluzionarono anche le tecniche in cantina.
Ed è in questa fase che entra in gioco il vitigno camaiola. Sul finire dell”800 e, in modo ancora più convinto all’alba del ‘900, anche nella Valle Telesina si avviò un graduale passaggio della tecnica vitivinicola dal tradizionale empirismo alla moderna impostazione, basata su conoscenze scientifiche. Si iniziò a prestare attenzione a questioni anche più pratiche, come le tecniche di scelta del vitigno, di impianto del vigneto, di potatura della vite, concimazione e vendemmia. Proprio in quei decenni si affermò il vino Solopaca, che veniva prodotto utilizzando più vitigni. In particolare, per quanto concerne il Solopaca Rosso si utilizzavano vitigni caratterizzati da alto potere colorante, notevole carica di frutto e scarno profilo tannico. Si affermarono le tintiglie, la vernaccia, il primitivo e, soprattutto, la camaiola. Tutto questo mentre i produttori castelveneresi, che nella prima metà del ‘900 diventarono fiore all’occhiello della produzione sannita, andavano alla ricerca di una identità diversa dal vino Solopaca, chiamando il loro rosso Barbera, anche ai fini della grande opportunità commerciale che questo nome all’epoca offriva.
Il vitigno camaiola, iscritto dal luglio 2021 al Registro nazionale delle varietà di viti (codice 938), costituisce la stragrande maggioranza degli ettari vitati fino a oggi rivendicati a barbera (codice 019) nella provincia di Benevento, in particolar modo proprio nell’area telesina e titernina, dove la sua diffusione è massima. Ettari che non sono pochi e che, in questi ultimi anni, vanno incrementando.
Nel giugno 2017, quando da ricerche storiche “risorse” il nome camaiola, gli ettari di barbera erano 375; nell’aprile 2021, alla vigilia dell’iscrizione del vitigno con il suo antico nome, gli ettari sono diventati 412 (dati Agea). Come detto, il cuore del terroir eletto per il vitigno camaiola si concentra proprio nelle campagne all’ombra dei resti dell’antica Telesia: il primato tocca a Telese Terme, che conta ben 63 ettari (30% della superficie vitata totale del Comune), seguita da San Salvatore Telesino, con 39 ettari vitati (15% della superficie vitata). In questa ristrettissima area, che conta circa 400 ettari vitati in tutto, si concentrano oltre 100 ettari coltivati ad uva camaiola: Telese Terme e San Salvatore Telesino (in rosso nel grafico) rappresentano il 25% del ‘Vigneto Camaiola’ .
Da questo nucleo si dipana una fitta ragnatela che va ad interessare le vigne delle realtà confinanti: Castelvenere con 38 ettari (5% della superficie vitata); Amorosi con 27 ettari (30%); Solopaca con 25 ettari (4%); Faicchio con 20 ettari (15%); San Lorenzello con 19 ettari (9%); Puglianello con 14 ettari (23%); Melizzano con 12 ettari (8%). In questo anello che “stringe” l’antica Telesia (in arancio nel grafico) si concentra il 37% delle vigne di camaiola della provincia di Benevento. Dunque, oltre il 60% degli ettari coltivati a questa varietà è concentrata nelle località già indicate negli ‘Assisa seu Statuta Civitatis Thelesiae‘.
La camaiola viene particolarmente coltivata anche nelle realtà poste ai limiti della provincia, che segnano il confine con quella di Caserta: Frasso Telesino con 8 ettari (8%), Dugenta con 9 ettari (7%); Sant’Agata dei Goti con 21 ettari (6%); Limatola con 1,6 ettari (27%). Sul versante opposto, a nord, da segnalare la realtà di Cerreto Sannita, la sede circondariale da cui si irradiò il sapere agricolo all’indomani dell’Unità d’Italia, con una quota rilevante di 13,5 ettari (10% della superficie vitata). In queste realtà (in giallo nel grafico) ritroviamo il 13% delle vigne camaiola.
Al di fuori di questa cornice spicca Benevento (in azzurro nel grafico), dove gli ettari vitati a camaiola sono passati dai 12 del 2017 ai 19 della primavera 2021, facendo registrare l’incremento più rilevante in termini percentuali (+58%) e rappresentando il 4,5% della superficie totale.
Con il termine terroir si intende un concetto complesso, che riassume tutti i criteri che contribuiscono alla tipicità di un vino. Il terroir, dunque, può essere definito come un’area ben delimitata dove le condizioni naturali, fisiche e chimiche, la zona geografica ed il clima permettono la realizzazione di un vino specifico e identificabile mediante le caratteristiche uniche della propria territorialità. A tutto questo si aggiunge l’intervento dell’uomo.
Più volte abbiamo scritto delle unicità organolettiche dei vini Camaiola, poche volte abbiamo approfondito le condizioni per cui questo vitigno è finito per essere coltivato quasi esclusivamente in una ristrettissima area. Se si deve ai produttori di Castelvenere il merito di aver custodito la ricca tradizione enologica legata al vitigno, bisogna riconoscere che alla salvaguardia di questa varietà hanno contribuito molti agricoltori della valle, appartenenti ad alcune famiglie che da sempre legano il loro nome alla coltivazione di queste uve, in primis le famiglie Foschini, Di Mezza e Iannotti (solo per citarne alcune), grandi proprietari terrieri della zona della piana telesina. La distribuzione del vitigno non è legata solo alle preferenze dei viticoltori, bensì fortemente condizionata dalla natura dei suoli e dalle condizioni climatiche. Parliamo di fattori che influenzano anche il sistema di allevamento, tanto che molta camaiola ancora oggi è prodotta da vecchi impianti che si rifanno alla raggiera.
Per quanto concerne il suolo, il vitigno si è ben adattato su specifici terreni, in particolare quelli influenzati dalle eruzioni vulcaniche. Grazie al lavoro di alcuni studiosi (tra cui Antonio Leone e Antonio Di Gennaro) conosciamo le influenze lasciate su questo territorio dalle azioni eruttive, in particolare da quella dei Campi Flegrei risalente a più di 39.000 anni fa. Tra queste zone risalta la Piana di Telese, costituita da un’ampia superficie pianeggiante delimitata dalla media valle del Volturno a occidente, dalle colline di Telese a est e dal fiume Calore a sud. Il substrato della Piana è costituito da una sovrapposizione di depositi alluvionali, ignimbritici e travertinosi. C’è poi la Piana Ignimbritica sospesa di Castelvenere, costituita da un’ampia superficie pianeggiante che interessa anche il territorio di San Salvatore Telesino (località Pugliano). Nell’area del Titerno troviamo la depressione strutturale, compresa tra i versanti del Matese a nord e le colline della Bassa Valle del Calore a sud: questa superficie – che interessa la zona bassa dei territorio di San Lorenzello e Cerreto Sannita – è stata aggradata da depositi ignimbritici che hanno dato luogo ad un’ampia zona pianeggiante, successivamente reincisa dal Torrente Titerno. Sull’altro versante, ai piedi del Taburno, troviamo i terrazzi strutturali di ignimbrite campana che dalla zona sud orientale del territorio di Solopaca vanno ad abbracciare quello di Melizzano. Viaggiando ancora più verso sud, nell’area di Dugenta, troviamo affioramenti di piroclastiti e delle lave delle ignimbriti campane e del vulcano Roccamonfina. Questa ricostruzione permette di stabilire uno stretto collegamento tra la natura dei suoli e la diffusione del vitigno, che si è ben allocato su terreni sciolti, ben drenati, caratterizzati da una ricchezza di potassio – che favorisce la concentrazione di zuccheri – che a volte mostra anche qualche nota critica.
Passando al clima, va detto che questa varietà (insieme ad altre, come ad esempio l’ormai quasi scomparsa Primata di Castelvenere) si è diffusa nelle zone più pianeggianti anche per le sue caratteristiche fenologiche. Parliamo di una pianura all’ombra di alture scoscese che superano i 1.300 metri di quota, le cui vette vengono frequentemente innevate, anche in primavera inoltrata, con il dannoso rischio di distruttive gelate notturne. L’unica difesa contro questo evento climatico è dato dalla scelta di impiantare vitigni dal germogliamento tardivo, proprio come la camaiola, il cui ciclo vegetativo parte nella seconda decade di aprile inoltrata. L’altro aspetto fenologico importante è la maturazione abbastanza precoce, che si registra intorno alla seconda decade di settembre.
Questa la carta di identità di un vitigno dalle grandi potenzialità. Il Sannio Consorzio Tutela Vini è al lavoro per portare a termine l’iter burocratico al fine di poter vedere sul mercato le prime bottiglie di vino etichettate con il nome Camaiola. Ad oggi si è richiesto di modificare il disciplinare di produzione dei vini Sannio Dop, prevedendo appunto la varietà Camaiola.
Nel frattempo, grazie ad un gruppo di aziende che si sono unite per conoscere scientificamente e valorizzare le peculiarità del vitigno, è nato il progetto Indigena, che presenterà i suoi risultati entro la fine dell’anno, coinvolgendo docenti della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Interessante sottolineare che allo stato le bottiglie a Denominazione di Origine (Sannio Doc Barbera, ovviamente) costituiscono solo una piccola quota della considerevole produzione di uva. Nel 2021 le bottiglie fascettate sono state circa 56 mila (55.877): un numero ben più alto rispetto a quelle del 2018, quando la cifra superava di poco le 36.000 bottiglie, ma veramente irrisorio rispetto alle potenzialità, di oltre 2 milioni di bottiglie!
Il forte incremento degli ettari vitati di camaiola registrato negli ultimi anni dimostra in maniera evidente che il lavoro portato avanti per la riscoperta e la valorizzazione di questo storico vitigno ha convinto molti viticoltori ad investire su di esso. A questo si aggiunge l’evidenza che nell’ultima vendemmia queste uve sono risultate quelle più ricercate e maggiormente retribuite. Un primo importante obiettivo è dunque stato raggiunto da parte di chi ha lavorato a dare la giusta ‘personalità’ ad una risorsa così importante, penalizzata sul mercato da un nome errato e non identitario. Il lavoro da fare è ancora molto e chiama in causa, oltre agli studiosi e alle istituzioni, l’intero mondo della produzione, al quale non è concessa la possibilità di ripetere errori già commessi in passato su altre produzioni.
Il vitigno camaiola potrebbe ripercorrere l’esempio della Lacrima di Morro d’Alba, un vino che presenta molte analogie nel gusto con il Camaiola, che ottenne la Denominazione di Origine nel 1985: allora si contavano solo 3 ettari di vitigno, oggi gli ettari rivendicati sono diventati 207, con una produzione in bottiglia che nel 2020 ha toccato la cifra di 1,7 milioni.
Le sue potenzialità però non sono solo enologiche. Nello scenario attuale – caratterizzato in maniera crescente dalla globalizzazione dei mercati – si fa sempre più forte da parte dei consumatori l’esigenza di scoprire e recuperare le origini di un vino, di cercare il prodotto tipico nel luogo di origine, spinti dal forte desiderio di conoscere il perché in un preciso luogo venga prodotto quel particolare vino, che cosa ha di caratteristico quel territorio per produrre quel vino così unico da non poter essere prodotto in altri luoghi. Ed ecco come anche l’enoturismo potrebbe essere fortemente stimolato grazie al forte appeal di un vino che viene prodotto da uve coltivate all’ombra di una delle più importanti città dell’antichità.
Un commento
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Articolo di straordinario interesse e di grande valore per la ricerca storica e per il contenuto di visione rispetto non solo alle trasformazioni del mercato ma a quanto valore sociale può avere l’agricoltura e in particolare la viticoltura sui territori. Aldilà dei confini amministrativi, l’area complessivamente si dimostra molto “fertile” per una rigenerazione a base culturale orientata alle potenzialità date dal valore evidenziato in questo testo. Grazie Pasquale Carlo per il tuo lavoro quotidiano.