Napoli, Osteria da Antonio. Oltre 60 anni di cucina di mare tra via Medina, via Depretis e…San Diego
Osteria da Antonio
Via Depretis 143 – ad. P.zza Municipio
Tel.+39. 081.551.01.38
Orari: 12,00 – 15,30 . 19,00 – 23,30
Aperto: tutti i giorni a pranzo e cena
Ferie: due settimane centrali in agosto
C/credito Bancomat: si
Napoli, si sa, è città di mare, anche se tutti oggi sappiamo che “il mare non bagna più Napoli”, come ci ricorda la grande Annamaria Ortese nel titolo di uno dei suoi più famosi romanzi del 1953.
Il mare di Napoli è, infatti, quasi del tutto negato. Nell’immaginario collettivo, sia, quello del turista, sia, quello della stragrande maggioranza dei napoletani che non possono permettersi vacanze, il mare bagna ancora la città, anche se in sensi diametralmente opposti. C’è il mare di Via Caracciolo, dove, si riversa la Napoli senza alternativa e c’è quello del Porto con i nuovi terminal, dove approdano lussuose navi da crociera italiane e straniere e da dove partono traghetti ed aliscafi per le isole. Per i passeggeri delle navi, veri e propri, “Grand Hotel galleggianti”, Napoli vale al massimo una giornata di sosta, poi via, verso Pompei, Capri, Amalfi, Sorrento e Positano.
Quella di cui sopra è la Campania percepita dai turisti, oltre naturalmente ai lati negativi che non voglio ricordare, preferisco invece, far emergere la voglia di rialzarsi, l’altro volto di questa città, quello che esiste da secoli, che è nel sangue dei veri napoletani e che dovrebbe darci volontà ed energie per dire NO, attraverso fatti e comportamenti quotidiani diversi, cominciando dalle piccole cose, formando bambini e giovani che dovrebbero essere il futuro della Sirena Partenope che oggi annaspa.
Chiusa la parentesi socio – politica, devo dire che, grazie all’impegno di tanti operatori napoletani, la durata del “bite and run ” si sta progressivamente prolungando e ritornano anche i turisti che viaggiano in libertà, senza essere intruppati in autobus o navi, oggi, hanno meno timore e si lasciano tentare dai colori e dai profumi della Napoli storica e dalla nostra cucina verace. Così, dopo le escursioni presso le varie meraviglie del centro storico, spesso muniti di guide molto dettagliate (soprattutto tedeschi e francesi), coppie e piccoli gruppi, vanno alla ricerca di osterie, pizzerie e trattorie dove sperimentare i piatti della nostra tradizione. Piazza Municipio è spesso luogo d’inizio delle escursioni, partendo dalla visita al Maschio Angioino, anche detto Castel Nuovo.
Il tour prosegue, nel raggio di pochi chilometri, verso il centro storico, i Decumani, dai quali tornare indietro, attraverso i Quartieri Spagnoli, per poi scendere in Piazza Trieste e Trento, visitare Palazzo Reale, Piazza del Plebiscito e Castel dell’Ovo con il lungomare di via Caracciolo, tra i più belli del mondo.
Si rientra alla base dopo aver visto, nell’arco di poco più di una decina di chilometri, le grandi meraviglie di Napoli. Piazza Municipio è la sede di molti altri luoghi simbolo della città, tra i quali: Palazzo San Giacomo, sede centrale del Comune e Ufficio del Sindaco, voluto da Ferdinando I di Borbone, al cui interno si trova una chiesa, ancora riconosciuta come Chiesa Nazionale di Spagna e il Teatro Mercadante, aperto al pubblico nel 1779 con l’opera di Giovambattista Lorenzi, L’infedele fedele, musicata da Domenico Cimarosa.
Terminato il giro, fame e sete si fanno sentire: niente paura, a due passi dai terminal crocieristici, all’angolo tra via Agostino de Pretis e Piazza Municipio, rilevante area della “business city” napoletana, ricca di banche, uffici e studi professionali, si trova, da oltre 25 anni, l’Osteria di Antonio Aceto, per clienti ed amici, Tonino.
La strada è intitolata ad Agostino Depretis, politico mazziniano e presidente del Consiglio dei ministri per nove mandati fino al 1887, che viene ricordato perché sotto il suo governo fu varata la Legge Coppino (1877), che rendeva gratuita e obbligatoria la scuola elementare.
La piccola Osteria, solo apparentemente “acciuffa turisti”, è sempre affollata, in qualsiasi giorno della settimana, inaccostabile durante i week end, se non previa prenotazione. In realtà, gli anni d’esperienza nella ristorazione della famiglia Aceto, originaria di questa zona, (Antonio è nato in Rua Catalana, la via dei “lattonieri”), sono molti di più.
Nella zona di via Medina, vicino a piazza Municipio, a Napoli, sbuca la stretta Rua Catalana, cd.”Via dei Rammari”, nota per le numerose botteghe specializzate nella lavorazione del ferro, del rame e della latta. Questa via e le strade limitrofe (vicolo Graziella, via Basile, calata Ospitaletto) sono diventate un allestimento permanente di ironici lampioni e sculture di ferro, firmate dai maestri lattonieri. L’ideatore è Riccardo Dalisi, architetto e designer napoletano che ha realizzato le installazioni con il contributo di tutti gli artigiani della zona.
Papà Vincenzo, insieme con la moglie Maria, ha gestito per anni in via Medina un locale chiamato “Taberna Svizzera”, dal nome del precedente proprietario, lo svizzero Hans Jenny, che l’aveva aperto negli anni ’20 e tenuto fino a quando, verso la metà degli anni ’60, decise di cederlo a Vincenzo Aceto per tornare nella propria Tenuta di Capri, dove, tra i primi, cominciò a produrre vino, tuttavia, Hans, anziano e senza la sua Taberna, sopravvisse soltanto pochi mesi. Alcune fonti ritrovano un Hans Jenny, come giocatore del Calcio Napoli nei primi anni ’20, in coincidenza con la nascita della Società. Anche Gabriele D’Annunzio fu ospite del suo locale.
I ragazzi Aceto affiancarono da subito i genitori nella gestione della Taberna, è proprio qui, infatti, che il nostro Oste Antonio “si fa le ossa”, finché verso la fine degli anni ’60, Papà Vincenzo, con ben cinque figli, acquistò il locale in Via De Pretis per ampliare le attività e lasciare qualcosa ad ogni figlio.
Erano gli anni del boom economico, davanti alla sede centrale della Banca d’Italia, in piazza Municipio, il 27 di ogni mese si formavano lunghissime code degli impiegati statali per ritirare lo stipendio: l’accredito in conto non c’era ancora.
Il locale era di proprietà di due sorelle che gestivano una semplice cantina. Antonio e suo fratello Salvatore, lo rimodernarono e vi si trasferirono verso la metà degli anni ’70, trasformando la vecchia mescita in American Bar, locali molto numerosi e in voga in quegli anni, dal momento che il porto di Napoli brulicava di militari americani, “grazie” alle tante porta aerei di stanza nel golfo. Ah, a proposito, giusto per precisione, il nostro instancabile oste, negli anni che passarono tra l’acquisto del locale in via De Pretis e l’apertura dell’American Bar, (metà anni ’60 – 1975) fece “un salto” in Inghilterra, per fare esperienza presso ristoratori italiani (aveva già le idee chiare in testa). Terminata l’american season, si tornò alla normalità e nel 1989 Antonio, separatosi dal fratello, aprì la propria osteria. Pochi anni dopo, nacque il suo secondo figlio, Andrea, occhi color del mare, che, dal 2003, lo affianca con grande gioia e passione nella conduzione del locale. La Taberna di Via Medina, sotto la gestione degli altri fratelli di Antonio, è andata avanti fino ai primi anni ’90, quando ha chiuso definitivamente. Di Vincenzo, il primogenito di Antonio, diremo tra poco…
Oh finalmente, veniamo all’Osteria, un’oasi di allegria, gusto e refrigerio dell’anima, nel caos totale del centro città.
L’ambiente emana vita vissuta, calore e amore per questo mestiere. Mi accoglie Andrea, già con una bottiglia di acqua fresca tra le mani, m’invita ad aspettare il papà Antonio, che è ancora in giro per le ultime spese, mentre lui, in grande scioltezza, si prende cura dei primi avventori stranieri che sono soliti, al contrario di noi napoletani, pranzare molto presto. Rimango assolutamente incredula per il perfetto american – english di Andrea e, persino per l’attenzione di nappare il bordo dei piatti da eventuali sbavature.
Intanto mi guardo intorno: arredamento curato, tovaglie da ristorante, in tinta unica con tanto di coprimacchia, stavolta niente quadretti. Alle pareti c’è davvero di tutto: in particolare modelli in legno di imbarcazioni a vela di vario tipo ed epoca, strumentazione di bordo, bandiere, stemmi, remi in legno, lampade, scaffali con tanti vecchi libri e in alto, proprio sull’ingresso della cucina, mi colpisce una “fenestella” con le ante azzurre, classica degli ambienti marinari napoletani di una volta. Sul davanzale, una corda di panni stesi molto particolare…guardo bene: è un tricolore, composto da biancheria intima femminile di larga taglia, sfrenata fantasia partenopea. Prima di andar via scoprirò il perché… per ora, mi accontento di sapere che la finestra è finta, frutto dei lavori durante la trasformazione del locale da american bar in osteria familiare.
In sala, circa 50 coperti tra interno e marciapiede esterno, fa bella mostra di sé un banco contorni con tanto di delicato velo bianco per proteggere le pietanze dalle mosche.
Sugli scaffali noto bottiglie di vino campano dalla faccia conosciuta, le etichette più note anche all’estero, il che dimostra che il nostro Oste ha una buona conoscenza dei gusti della propria clientela. Il vino della casa arriva da un noto distributore di città: falanghina, probabilmente del beneventano e piedirosso flegreo. La maniera di offrire il vino sfuso è molto simpatica: Antonio, Andrea, o l’aiuto di sala portano in tavola una fiaschetta in vetro con il tappo stile “idrolitina”, dove, da una bottiglia più grande versano il vino richiesto. I bicchieri sono i classici da osteria, ma, per i vini imbottigliati ci sono i calici professionali.
Sono circa le 13,00, Antonio Aceto, trafelato, fa il suo ingresso con le mani occupate da una decina di buste, intravedo: pane, pesce fresco, provola, verdure varie e due invitanti confezioni con fiocco, decisamente si tratta di dolci. Mi saluta e si fionda in cucina. Intanto vado a curiosare dietro il velo.
Finalmente Antonio torna in sala e, saltando da un tavolo all’altro, risponde a puntate alle mie domande. La cucina, vista la posizione, è essenzialmente di mare, anche se, in inverno compaiono tutti i piatti della pura tradizione napoletana, ovvero, ragù e genovese, maccheroni lardiati, salsicce e friarielli, polpette e via discorrendo…Mentre parliamo, vedo passare una splendida mozzarella tricolore, ne chiedo la provenienza: bufala di produzione di un noto caseificio dell’agro aversano, decisamente invitante.
I profumi si fanno più intensi e accattivanti, iniziano ad uscire i primi piatti di mare, il fiore all’occhiello dell’osteria, in particolare due ricette reinterpretate da Antonio e richieste da tutti gli habitué napoletani e non, professionisti, bancari e gente comune, che, dopo una prima visita, si aggiunge automaticamente alla numerosa schiera degli aficionados. I piatti in questione: Conchiglioni, con appena un bollo, farciti di cozze, provola e ricottina fresca, infornati e poi conditi con sughetto di pomodorini del piennolo, polipetti o, piccoli calamari a pezzetti.
L’altro “must”: linguine, o, spaghetti, con telline e taratufi al profumo di limone e basilico, Un piatto delicato e saporito allo stesso tempo, dove sapidità, aromaticità, agrumato e tendenza dolce della pasta, creano una piacevole armonia. Stento a credere di trovarmi in osteria.
Questi sono i piatti più graditi da tutti, anche dai comandanti di bordo delle navi da crociera che ormai qui sono di casa. Oops dimenticavo il mio primo interesse: il pane. E’ decisamente buono, si vede dalla “faccia”, ne chiedo la provenienza che, non fa che confermarne la qualità: arriva dai forni a legna di Marano un comune della fascia collinare metropolitana, noto appunto, per la qualità del suo pane.
Verso le 13,30 – 14,00 inizia il caos totale: tavoli che volano da una parte all’altra della sala, file di persone all’ingresso, clienti che reclamano il proprio posto abituale, insomma un putiferio multilingue. Antonio ed Andrea restano tranquilli, dicono di sì a tutti (“dice ca sì ca nun è peccato” si dice a Napoli). Tutto si sistema come per incanto, padre e figlio schizzano tra sala e cucina, Antonio con il solito ingrediente indispensabile ai napoletani per la sopravvivenza ( la “Santa Pacienza”di edoardiana memoria), trova persino il tempo di spinare una spigola alla brace, mentre ai tavoli arrivano a go – go calamari fritti, pesce spada alla griglia e frittura di paranza con tutti i crismi.
La sala è più che gremita, a stento c’è lo spazio per passare tra un tavolo e l’altro, si mangia stretti, stretti “core a core”, ascoltando con attenzione, come sempre succede a Napoli, i fatti degli altri e intervenendo anche per dire la propria, quando è il caso. Prima della frutta e/o dessert, arriva la portata obbligatoria in tutte le trattorie napoletane che si rispettino: “ ‘a ‘mpepata ‘e cozze”.
Salto la frutta di stagione, intravedo una bellissima anguria in cucina, ma, preferisco lasciarmi tentare dai dolci, decisamente più invitanti e golosi, di produzione di un noto maestro pasticciere nell’immediata periferia ovest della città. ( nb. siamo al 12 luglio, quest’anno niente costume :-D)
Oh, adesso, arrivati al dolce, abbiamo un po’ di misteri da svelare. Partiamo dal perfetto inglese di Andrea che ci riporta direttamente alla storia di Vincenzo, il figlio primogenito di Tonino, il quale, una volta maggiorenne, sacco in spalla, è partito alla volta della California, con precisione San Diego, in testa un progetto preciso, quanto giudizioso: svolgere alcuni anni di corsi e apprendistato in locali del posto, per poi aprire un proprio ristorante. Vincenzo è quasi alla fine del percorso, l’apprendistato è quasi terminato e l’apertura dell’osteria o ristorante che dir si voglia, è prossima. Suo fratello Andrea, quello dagli occhi blu che fa impazzire le straniere in osteria, è andato diverse volte a trovarlo e, tra la frequentazione con le persone del posto e le conversazioni quotidiane con gli stranieri, clienti dell’osteria in via de Pretis, ha imparato davvero bene, sia le lingue straniere, ( a San Diego si parla anche spagnolo), sia le tecniche di servizio in tavola. Ora il mistero della “Fenestella”: durante la ristrutturazione della cantina acquistata dalle due sorelle, Antonio trovò una specie di soppalco, inutilizzabile per qualsiasi fine pratico, ecco che allora esplose l’estro partenopeo, l’osteria – pensò Antonio tra sé e sé – deve essere un posto dove mangiare sentendosi a casa…Le case popolari napoletane di una volta, soprattutto quelle vicine al mare, avevano sempre “feneste e fenestelle” con ante azzurre e lunghe “spase” di panni al sole ad asciugare. All’apertura dell’osteria, la fila di panni attraversava il locale da parte a parte, mostrando indumenti di ogni tipo, anche intimi, poi, dopo qualche cambiamento per esigenze pratiche dell’osteria e, in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, il nostro Oste, dotato della sferzante ironia partenopea, ha lasciato pendere soltanto tre enormi indumenti intimi femminili, ovviamente, bianco, rosso e verde, con due tocchi di autentica napoletanità: la caffettiera napoletana e la tipica veduta partenopea con il Vesuvio ed il pino. Non abbiamo parlato del back stage: in cucina con Antonio ci sono Francesco Pinto e la mitica Anna, ultrasettantenne che lavora con Antonio sin dai tempi dell’American Bar. Anna in quegli anni s’innamorò di un americano, un ex- marine e se ne andò a New York, poi, per ragioni personali, tornò a Napoli e da allora, non si è mossa più dall’osteria, dove lavora soltanto di sera, per questo motivo non ho avuto la gioia d’incontrarla.
Adesso il quantum, vi avviso…siamo leggermente al di sopra della sogliola…
La media dei primi varia dai 5,00 euro per gli spaghetti al pomodorino del piennolo e le penne alla Norma; 8,00 euro per il risotto alla pescatora; 10,00 – 12,00 per le specialità della casa di cui sopra, che da sole valgono un pranzo; 10,00 per gli spaghetti a vongole o, misto mare. I secondi vanno mediamente da 8,00 euro per la impepata di cozze; 10,00 euro per il calamaro alla brace, il pesce spada e il “pignatiello” di polipetti alla luciana; 15,00 euro per spigola e orata; 8,00 euro per misto formaggi e mozzarella; 4,00 euro rispettivamente per contorni, frutta, dessert e fiaschetta di vino della casa. In chiusura, arriva un caffè napoletano in vetro con tutte e tre le “C”, se non siete napoletani o almeno del sud, vi toccherà restare con la curiosità…
Facciamo due conti: per i mitici conchiglioni, un’impepata di cozze, vino, acqua e dessert spenderete 28,00 euro. Per il “pignatiello di polipetti veraci alla luciana”, contorno a scelta, dessert, acqua, vino e caffè, dovrete tirar fuori 24,00 euro. Certo, si tratta in media, di quattro – otto euro al di sopra della “sogliola” di cui sopra, ma, ancora una volta, vi sfido a trovare in piena “city” un’osteria come questa di Antonio Aceto, dove le materie prime sono di primo livello, le porzioni valgono per due, la storia ha oltre sessant’anni e il tessuto umano è stellato *.
14 Commenti
I commenti sono chiusi.
grazie, ho già preso appunti con indirizzo e telefono …..
Bella, come al solito la tua vena artistica mi arriva netta. Conosco il posto ed e’ simpatico. Infelice la location a causa dei millenari cantieri, la poca illuminazione serale e per la solitudine de i tanti uffici. Meglio a pranzo. Brava.
bell’articolo e sono con lei nell’augurarmi che la nostra Napoli si decida finalmente a mostrare i suoi lati migliori.
Giulia ci sta facendo diventare tanti guardoni: ecco un altro posto che conosco da una vita ma nel quale non avevo mai sbirciato… annotato, ora toccherà entrarci!
E’ vero che i complimenti non sono mai abbastanza e non credo che tu ci abbia fatto l’abitudine. Quindi, volentieri, aggiungo anche i miei. Il resoconto è paricolarmente bello, ricco di elementi e di considerazioni , ma soprattutto di entusiasmo e sentimento.
Grazie, Giulia, per avermi riportato indietro con la memoria ad anni in cui quelle strade erano, a pieno titolo, la “city” di Napoli, ed io mi sentivo parte di quel cuore pulsante che ospitava, spesso e volentieri, manager (perlopiù del mondo bancario) provenienti da ogni parte d’Italia. Ebbene, grande era la loro sorpresa quando, ospiti di un giovane funzionario in doppiopetto (il sottoscritto), gustavano le delizie culinarie di Antonio e ne apprezzavano la grande e nobile gentilezza di modi.
Quella “city” e quel giovane funzionario non ci sono più, ma, per la fortuna di tutti noi, Antonio sorride ancora nel suo piccolo, grande, locale.
Mi ricollego al commento del sig. Miraglia. La “City”, ci ho lavorato fin quasi al suo parziale declino e, accidenti, solo ora scopro attraverso la Sua rubrica l’esistenza di questo posto. Per anni ho fraquentato le ignobili tavole calde di Via Cervantes e, probabilmente
adesso ne pago le conseguenze. Ci andrò anche per rifarmi del tempo perduto.
Interessante e accattivante. Mi hai fatto venir voglia di vedere questo luogo. Dettagliate le informazioni anche sul costo delle pietanze adatte sia per i napoletani che per quanti vengono da altre città vogliono mangiar bene senza strane sorprese..
Attendiamo la prossima e intanto appuntiamo questa osteria tra quelle da visitare e da consigliare…
tiemp bell e na vota…….. li stai facendo rivivere ma con la capacità di proiettarli nel futuro di una napoli che vuole vivere e recuperare la sua parte migliore ancora grazie e aspettando la prossima andrò da ANTONIO per quei conchiglioni …….
Seguo la tua rubrica fin dal primo articolo apparso su questo sito, articoli che nel tempo sono diventati sempre più ricchi ed interessanti soprattutto per il contenuto di carattere storico ed urbanistico. Ho anche seguito qualche tuo consiglio ed ho visitato alcune trattorie tra quelle apparse. Tranne che in un caso, sono rimasto sempre totalmente soddisfatto e per la qualità della cucina e per i personaggi del tutto corrispondenti alle tue descrizioni. In sostanza ho scoperto una realtà gastronomica, tutta napoletana, a me fino a questo momento quasi del tutto sconosciuta e sotto certi aspetti, soprattutto in chiave rapporto prezzo/qualità, di gran lunga superiore a ristoranti celebrati e famosi. Perciò grazie, e questo Antonio non me lo perdo.
Più che precisa la sua analisi del mare di Napoli. E’ vero,il mare non bagna Napoli. Eppure non è stato sempre cosi. Se frugo tra i miei ricordi d’infanzia, partendo dal Molosiglio c’era il Bagno Savoia, proprio a ridosso del Molosiglio stesso, sotto il Castel dell’Ovo c’era l’Eldorado, poi all’inizio di Via Posillipo il mitico Sea Garden e a salire, l’Ondina, l’Elena, l’Ideal, Il Posillipo ed il Sirena sotto il Palazzo Donn’Anna e poi Grottaramana, Villa Mazziotti e Villa Martinelli infine il Lido Marechiaro. Le cozze di Santa Lucia si consumavano tranquillamente anche crude. Quello era il mare di Napoli, tranquillo, sicuro, disponibile. Poi il buio più totale fino agli anni del colera. Ora pare che, timidamente, un pò alla volta le cose stiano migliorando. Speriamo che questo trnd non si fermi e sicuramente l’esistenza di questo sito e la presenza di articoli come il suo, contribuiscono a divulgare ciò che Napoli era e che deve ridiventare.
Mi associo e condivido in toto gli ultimi due commenti. Sarebbe bello creare un movimento d’opinione magari su facebook in favore della rinascita di Napoli ma, come fare? Sicuramente, se creato da chi dirige questo sito e dai suoi collaboratori avrebbe un peso completyamente diverso da quello che avrebbe se promosso da noi che lo seguiamo. Davvero, perchè non provarci?
Io non l’ho vissuta una Napoli cosi. a Posillipo c’erano Villa Beck, Le rocce Verdi e i Marechiaro e nessuno di questi posti era vivibile, specie nei festivi. Io più modestamente, da Marechiaro, per pochi soldi trovavo una barca che ci traghettava al vicino “Scoglione” dove con un pizzico di adattamento potevi goderti il sole ed il bel mare del posto in relativa tranquillità. Mi associo volentieri fin da ora al nascente gruppo per la rivalorizzazione del mare di napoli e poi, una domanda, ma trattorie o osterie come questa non ce ne sono a Posillipo?
[…] Napoli, Osteria da Antonio. Oltre 60 anni di cucina di mare tra via Medina, via Depretis e…Sa… sembra essere il primo su Luciano Pignataro […]