Napoli, La Cantina di Masaniello: tra leggende e verità, la cucina di uno dei più antichi locali del centro storico
Via Donnalbina, 28
Tel. 081/5528863 fax 081/682368
Aperti: dal lunedì al sabato – ore 10, 30 – 15,30/19,00 – 23,30
Chiusura: domenica
Ferie: 3 settimane in agosto
Carte di credito – Bancomat: si
Parcheggio: zona pedonale
La leggenda locale racconta che nella Cantina di Masaniello di oggi, si trovassero una volta, le stalle del seicentesco palazzo Malatesta, sosta preferita da Masaniello con il suo inseparabile cavallo. Inoltre, si presume che la Cantina sia il locale più antico del centro storico di Napoli, a dimostrarlo sono proprio gli archi di piperno presenti nella cantina. Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620 – Napoli, 16 luglio 1647), fu il principale protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, la popolazione civile della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo.
Essendo un personaggio di grande rilevanza nel panorama folkloristico di Napoli, le vicende della sua vita si mescolano spesso al mito e alla tradizione popolare della città. Quella di Masaniello fu una rivolta da attribuire soltanto alla specifica situazione politica, economica e sociale nella quale versava la Napoli spagnola nella prima metà del Seicento. La rivolta fu scatenata dall’esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte sugli alimenti di necessario consumo. Masaniello nacque a Vico Rotto al Mercato, uno dei tanti vicoli che circondano piazza del Mercato a Napoli. Il 7 luglio 1997, in occasione del 350º anniversario della sommossa popolare, il Comune di Napoli ha posto un’iscrizione a Vico Rotto in onore di Masaniello.
La casa dove visse si trovava tra la pietra del pesce, nel quartiere Pendino, dove avveniva la riscossione della gabella sui prodotti ittici, e Porta Nolana, dove invece avveniva quella del dazio sulla farina. Napoli era all’epoca, con circa 250.000 abitanti, una delle metropoli più popolose d’Europa, e piazza del Mercato, nei cui dintorni Masaniello trascorse tutta la sua vita, ne era il centro nevralgico. Di impressionante attualità il suo ultimo discorso prima dell’esecuzione: “ Amici miei, popolo mio, gente, voi credete che io sia pazzo e forse avete ragione voi, io sono pazzo veramente”. Ma non è colpa mia, sono stati loro che per forza mi hanno fatto impazzire! Io vi volevo solo bene e forse sarà questa la pazzia che ho nella testa. Voi prima eravate immondizia ed adesso siete liberi. Io vi ho resi liberi. Ma quanto può durare questa vostra libertà? Un giorno? Due giorni? Eh già, perché poi vi viene il sonno e vi andate tutti a coricare. E fate bene: non si può vivere tutta la vita con un fucile in mano. Fate come Masaniello: impazzite, ridete e buttatevi a terra, perché siete padri di figli. Ma se invece volete conservare la libertà, non vi addormentate! Non posate le armi! Lo vedete? A me hanno dato il veleno e adesso mi vogliono anche uccidere. Ed hanno ragione loro quando dicono che un pescivendolo non può diventare generalissimo del popolo da un momento all’altro. Ma io non volevo far niente di male e nemmeno niente voglio. Chi mi vuol bene veramente dica per me solo una preghiera: un requiem soltanto quando sarò morto. Per il resto ve lo ripeto: non voglio niente. Nudo sono nato e nudo voglio morire. Guardate! Masaniello morì, ma l’opera sua rimase. Il ribelle napoletano è protagonista della canzone ‘O cunto ‘e Masaniello della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Viene inoltre citato in Canto allo Scugnizzo dei Musicanova, in Je so’ pazzo di Pino Daniele.
La Cantina di Masanielllo è da sempre in Via Donnalbina 28 e ciò ci riconduce ad un’altra leggenda, narrata da Matilde Serao.
La celebre scrittrice e giornalista napoletana scrisse «Donn’Albina, Donna Regina e Donna Romita» nel 1880. A quell’epoca, la futura fondatrice del Mattino abitava in piazzetta Ecce Homo, a poca distanza da quella strada, ancora oggi ricca di fascino e di mistero, dove lavoravano gli artigiani dei mobili, gli scultori e i pittori dei santi.
Napoli è una città in cui, dalla sirena Partenope in poi, anche le favole danno il nome ai luoghi. Nel racconto della Serao, Donn’Albina, Donna Regina e Donna Romita, erano le tre figlie del barone Toraldo, nobile del Sedile di Nilo vissuto ai tempi del re Roberto d’Angiò. Le tre sorelle di casa Toraldo erano innamorate, suprema sventura, dello stesso uomo, don Filippo Capece, «un cavaliere di nobil sangue bello e dovizioso». Non essendone riamate, le tre fanciulle si fecero monache fondando ciascuna un convento con i rispettivi nomi: Donn’Albina, Donna Romita, Donna Regina. Dal convento di Donn’Albina nacque il nome del luogo. Un’altra leggenda – stesso dedalo misterioso e cupo, un’altra stradina «nera, nera» – circonda Palazzo Penne in piazzetta Teodoro Monticelli, a poca distanza da via Donnalbina e dal Pendino di Santa Barbara, meglio conosciuto dai napoletani come “‘e scalelle ‘e Santa Barbara”.
Fatto costruire nel 1409 dal nobile Antonio da Penne, segretario e consigliere di Ladislao Il Magnanimo, re di Napoli (1377–1414), viene ancora oggi ricordato come «il palazzo del demonio», perché la costruzione stessa del palazzo sarebbe il frutto di un patto col diavolo, contratto dal nobile Penne per amore di una stupenda ragazza che, non accontentandosi della ricca dote del suo spasimante, gli chiese «quale pegno d’amore e dono di nozze» nientemeno che un meraviglioso palazzo nel cuore di Napoli. In cambio del suo aiuto, il diavolo-muratore pretese l’anima del committente innamorato e, continuerebbe a nascondersi in un pozzo scavato nelle viscere del palazzo. Maligno genius loci: l’anima nera del quartiere di Donnalbina. Tra queste viuzze si trovava anche una celebre osteria napoletana, forse la più celebre di tutte: la Taverna del Cerriglio. Citata da autori come Giovambattista Basile e Giambattista Della Porta e famosa per le notti a base di vino, coltelli e prostitute.
Fino a tutto l’Ottocento il Cerriglio fu teatro di notti folli e intrighi che ancora vivono nella memoria collettiva di questo pezzo di città, poi la celebre osteria fu ingoiata dagli interventi urbanistici del Risanamento di fine ‘800, che hanno bonificato la zona per creare il Rettifilo. Cancellando per sempre i versi riportati sul portone d’ingresso della bettola del Cerriglio: «Magnammo, amice mieje, e po’ vevimmo, nfino ca stace ll’uoglio a la lucerna: chi sa’ si all’auto munno nce vedimmo! Chi sa’ si all’auto munno nc’è taverna!» (mangiamo e beviamo amici, finchè abbiamo olio nella lanterna. Chi sa se all’altro mondo ci vedremo. Chi sa se all’altro mondo c’è una taverna.) Napoli è una città dal patrimonio culturale, antropologico, artistico, architettonico e sociale vastissimo: ogni via, ogni strada, ogni largo, racchiude un tesoro immenso di monumenti, botteghe, chiese, tanti percorsi poco conosciuti, “piccoli mondi antichi” che contribuiscono a renderla unica (fonte http://www.laboratorionapoletano.com di Fabrizio Reale). Attraversando uno di questi itinerari “minori”, da via Mezzocannone all’altezza dell’Istituto Universitario “Orientale, percorriamo Via dei Banchi Nuovi, per arrivare in Piazza Monticelli dove c’è un monumento nazionale in vergognoso stato di abbandono: ”‘o bbanco e ‘l’accqua” di Nennella, l’ultima acquafrescaia di Napoli.
“Chi vo’ vevere, che è fredda!” era il richiamo che fino a non molti anni fa, si poteva udire nelle strade del centro storico. A pronunciarlo erano i noti acquaiuoli, figure oggi abbastanza rare, che gridavano a squarciagola per richiamare clienti nelle afose giornate napoletane. Le “banche dell’acqua” in città erano sparse un po’ dappertutto, circondate da bottiglie, limoni e arance. Le più importanti godevano di un’ampia offerta, dall’acqua ferrata proveniente dal Serino a quella ricercata di Telese dal sapore di uova marce. Diversi erano gli acquedotti che fornivano di acqua Napoli: quello della “Bolla” era il più antico, risalente all’epoca greca; del XVII secolo era il Carmignano e in città erano note le fonti di Santa Maria La Nova e del Leone a Posillipo. La più famosa delle acque napoletane era senz’altro la “zuffregna”, la sulfurea che sgorgava a Santa Lucia. Veniva servita fredda come la neve e conservate in piccole anfore di creta, dette “‘e mummarelle”. Un “piatto forte” anche per l’ultima, vera, acquaiola napoletana che si ricordi: la cosiddetta Zì Nennella, oggi 91 anni, che aveva il suo memorabile banco di marmo in piazzetta Teodoro Monticelli, davanti al Palazzo Penne del 1402. “Andavo a prendere ogni giorno l’acqua all’acquedotto a via Costantinopoli: l’acqua del Serino, in zona, ce l’avevo solo io – racconta l’acquaiola, che ha smesso l’attività solo nel 2003 per una brutta caduta. – L’acqua e limone, con zucchero o bicarbonato, la vendevo a 10 lire. I miei clienti erano soprattutto stranieri: tedeschi e belgi. Ma una volta è venuto qua anche il Presidente Zavoli”. Nel quartiere la “zia” è un’istituzione; rispettata da tutti e venerata dai più giovani. Il suo vero nome, S. Vincenza, per anni è rimasto ignoto. Prima di lei sua madre aveva avuto quattro figli, tutti morti. Così, “per scaramanzia”, la sua quinta figlia doveva essere semplicemente chiamata “‘a Nennella”, ovvero “la bambina”. La chiamavano in questo modo persino a scuola, “l’Elena di Savoia dove ho imparato a parlare italiano”, precisa, e così la nominava anche la “comara” con la quale è cresciuta. La “banca”, Vincenza l’aveva ereditata dalla nonna. V’incominciò a lavorare prestissimo, all’inizio dell’adolescenza; oltre all’acqua e alle limonate vendeva anche “‘o petrusino”, il prezzemolo, e le “rattatelle”, le granite ricavate da un blocco di ghiaccio. Non si è mai sposata, sebbene fosse considerata una bella ragazza e i pretendenti non mancassero. Molti clienti, racconta, aspettavano che al banco si calasse a prendere l’acqua per poterle sbirciare il seno e una volta un fotografo la immortalò di nascosto mentre si stava mettendo il rossetto. Nel suo stesso palazzo aveva abitato per un certo periodo Matilde Serao, fondatrice de “Il Mattino”, sofferente d’amore a causa del marito “svelto”, come Nennella lo definisce, Eduardo Scarfoglio.
Un giorno, ricorda, una studentessa messa incinta da Scarfoglio abbandonò il neonato sotto casa della Serao. Donna Matilde, con molta compostezza, accolse il bambino in casa come fosse stato suo. La sensibilità della Serao traspare da un’altra delle leggende napoletane da lei narrate, quella che vuole che tutte le fontane di Napoli siano lacrime, in particolare, quella di via Monteoliveto è formata dalle lacrime di una pia monachella che pianse senza fine sulla Passione di Gesù.
A rendere famosa Nennella fu una foto scattata da Luciano De Crescenzo pubblicata nel suo libro “La Napoli di Bellavista”. Scampata alla guerra, alle bombe che arrivarono persino a colpire Santa Chiara, Nennellaaffidò quel che restava del suo banco a un nipote, un pezzo ancora vivo della Napoli che fu, eterna come quell’acqua che continua a scorrere e che da sempre ha caratterizzato la città.
Proseguendo verso l’ attigua piazza Ecce Homo, con l’omonima chiesa, la strada si biforca: a destra c’è Via Donnalbina e, a sinistra, Vico Santa Maria dell’Aiuto, con l’omonima chiesa che rappresenta, uno dei più riusciti esempi di barocco realizzati a Napoli nella seconda metà del 1600 ed andrebbe inserita nei percorsi turistici in quanto tornata agli antichi splendori dopo il recente restauro completo. Si tratta di un classico esempio di chiesa realizzata come “ex-voto” per ringraziare la Madonna per la fine di una grave pestilenza.
Nelle sue immediate vicinanze c’è la chiesa di Santa Maria la Nova.
Proseguendo per via Santa Maria la Nova, poco prima del civico 32, noto a tutti i napoletani per aver dato ospitalità per anni a Pino Daniele, di fronte all’ingresso della Provincia, si trova un piccolo bar presente su diverse guide: il bar Battelli – consigliati su tutti le trecce ed i pasticcini crema ed amarena – e dopo le 10 fino ad ora di pranzo per le famose pizzette rotonde, pari per sapore solo a quelle del bar Moccia di liceale memoria.
Ok, ok, basta chiacchiere, andiamo in cucina: l’ambiente è rimasto quasi intatto, piccoli ritocchi, come pittoresche inserzioni a muro di antiche riggiòle napoletane del ‘600. Travi in legno ed archi di piperno.
All’ingresso c’è un forno per pizze poiché il locale, pur caratterizzandosi come cantina – osteria, è anche pizzeria, in particolare da asporto. Tra le due piccole sale, separate da un arco, il titolare, Francesco Falanga 36 anni, diplomato alla Scuola Alberghiera, si occupa dell’accoglienza e del servizio, che grazie alle sue lunghe esperienze all’estero, gli permettono di ospitare al meglio i turisti di ogni nazionalità, soprattutto francesi.
Ai fornelli, il cuoco, Giuseppe Stumpo, prepara i piatti tradizionali con qualche tocco di modernità, non sempre del tutto indovinato. Le materie prime sono eccellenti: il pane è fatto in casa da Antonio Ricci,
ventenne fornaio che dà una mano sia in cucina che, in sala. Anche qui di donne in cucina neanche l’ombra, sempre per il solito motivo: niente distrazioni e spazi ristretti… La pasta è di Gragnano, il pesce arriva dal noto mercato di Porta Nolana, “‘ncopp’e mmura” dove Francesco va personalmente ogni giorno. Il menù è stagionale, ma, ci sono almeno cinque o sei piatti del giorno. Per il vino si può scegliere tra più che discrete falanghina e aglianico del beneventano alla mescita, o falanghina dei Campi Flegrei in bottiglia. I piatti sono, per la maggior parte quelli della tradizione: sauté di frutti di mare, linguine con il coccio, paccheri al ragù e relativa carne, pasta e patate con scamorza affumicata, polipetti veraci alla Luciana, frittura di triglie di Procida,’coroniello’ in cassuola, baccalà fritto, calamari alla brace,
fritto di cicinielli e alici (il bianchetto, cioè pesciolini bianchi e piccolissimi. A Napoli si usava fare anche la pizza con i cicinielli, che insieme con quella con le alici è la vera pizza napoletana, ancora proposta in alcuni locali nei quartieri spagnoli e nella Pignasecca. Il nome in dialetto di queste frittelle è “pasta crisciuta co’’e cicinielli”.)Tornando ai piatti di terra, il cuoco propone: cotica imbottita, braciola, genovese del ‘600 fatta con carne di agnello, mezzanelli “lardiati”,
involtini di parmigiana di melanzane, salsicce alla griglia con friarielli, zuppa di lenticchie, pasta e fagioli, maccheroni allo scarpariello, paccheri con ricotta e melanzane. Inoltre, Francesco nutre una vera e propria passione per i formaggi e salumi, che vanno a comporre interessanti antipasti stagionali.
Tra i dolci, fiore all’occhiello sono la pastiera, la torta ricotta e pera e la cassata. Dal lunedì al giovedì, solo su prenotazione, una simpatica iniziativa, anti crisi: il menù fai da te, ovvero il costo del coperto e delle bibite sono imposti dalla cantina, i prezzi del menù li decide il cliente. Riguardo al quid, in generale i prezzi sono più alti della media, ma, è comunque possibile restare nel budget della nostra rubrica, assaporando piatti tradizionali e gustosi, tenendo conto che oggi quasi più nessuno riesce a mangiare un pasto completo dall’antipasto al dessert. Qualche esempio? Per un piatto di Paccheri con ricotta e melanzane, salsicce alla griglia con friarielli, acqua, vino della casa e l’ottimo pane, spenderete giusto 20 euro. Se avete voglia di provare l’assortito antipasto di Francesco, un appetitoso tagliere di formaggi, salumi e verdure di stagione che vale per due persone, zuppa di lenticchie, vino della casa e dessert sarete sempre intorno ai 20 euro. I prezzi aumentano se si scelgono piatti di mare, Francesco bada alla qualità, perciò se il pesce davvero fresco e i frutti di mare di prima qualità sono cari al mercato, arriveranno a tavola intorno ai 15 euro. Coperto e servizio sono free, ergo avete ancora spazio per una bella fetta di pastiera, visto che Pasqua si avvicina.
Ode alla pastiera:
“ L’addore passa sotto ‘e porte ‘mmiez ‘e scale, int’ ‘e viculi…
“Currite, giuvinò! Ce stà ‘a pastiera!”
E’ nu sciore ca sboccia a primmavera,
e con inimitabile fragranza
soddisfa primm ‘o naso,e dopp’a panza.
Pasqua senza pastiera niente vale:
è ‘a Vigilia senz’albero ‘e Natale,
è comm ‘o Ferragosto senza sole.
Guagliò,chest’è ‘a pastiera.Chi ne vuole?
Ll’ ingrediente so’ buone e genuine:
ova,ricotta,zucchero e farina
(e’ o ggrano ca mmiscato all’acqua e’ fiori
arricchisce e moltiplica i sapori).
‘E ttruove facilmente a tutte parte:
ma quanno i’ à fà l’imposto,ce vò ll’arte!
A Napule Partenope,’a sirena,
c’a pastiera faceva pranzo e cena.
Il suo grande segreto ‘o ssai qual’è?
Stu dolce pò ghì pure annanz’ o Rre.
E difatti ce jette. Alludo a quando
il grande Re Borbone Ferdinando
fece nu’ monumento alla pastiera,
perchè facette ridere ‘a mugliera.
Mò tiene voglia e ne pruvà na’ fetta?
Fattèlla: ccà ce stà pur’ a ricetta.
A può truvà muovendo un solo dito:
te serve pe cliccà ncopp ‘ a stu sito.
Màngiat sta pastiera,e ncopp’ a posta
dimme cumm’era: aspetto na’ risposta.
Che sarà certamente”Oj mamma mia!
Chest nunn’è nu doce: è na’ poesia!”
Come arrivare: Premettiamo subito, che il miglior modo è “pedibus calcantibus”, fare diversamente vi porterebbe molto lontano dal low cost… un bel verbale di 93 euro, l’equivalente di almeno tre pranzi alla Cantina di Masaniello.
La zona è completamente isolata da sensi unici e divieti di transito, un piano del traffico che danneggia notevolmente le numerose attività commerciali di questo dedalo minore della città. A piedi, da Via Monteoliveto, salendo lungo la 3^ traversa a destra. In treno: circa 2 km circa dalla stazione centrale delle FS Con mezzi pubblici: dalla Stazione centrale bus R2 (fermata piazza Bovio) + E1 (da fermata Rettifilo a fermata Monteoliveto); dalla stazione di Mergellina bus R3 (fermata Monteoliveto); dal parcheggio Brin bus C82 (fermata piazza Municipio); dal parcheggio Colli Aminei bus R4 (fermata Cesare Battisti); dal molo Beverello bus R3 (fermata Monteoliveto).
8 Commenti
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C’era Lucio Dalla in Piazza Plebiscito, San Silvestro 1999, subito prima del bug del nuovo millennio. Si può cenare senza cenone? Ovvio, anzi prima delle undici sarà meglio che vi avviate perché poi qui nei vicoli stretti è pericoloso, vola di tutto. Asprinio d’Aversa a sfare, ricordo forse paccheri rossi e la più struggente versione di Reginella che mai si sia ascoltata nei vicoli a ridosso di Santa Chiara. Alle undici andammo via, verso la piazza e verso i fuochi di Castel dell’Ovo, nell’anima la voce straordinaria di un cantante tardo melodico, molto tardo e poco melodico, che le mura de la Cantina ‘e Masaniello ancora ricordano. Si chiamava Fabrizio Scarpato, credo, era il secolo scorso, tanto, troppo tempo fa. D’altra parte di lì a poche ore forse sarebbe caduto il Mondo, la Terra…tutti giù per terra.
Pensa tu che Lucio è venuto a cantare da noi a Gaeta venerdì sera, moltissimo tempo dopo Spazio 1999 e Odissea nello spazio 2001, era ancora basso e non aveva le orecchie a punta, sempre da solo anche in mezzo a tanta gente. Sono contenta che non ci siano ancora i terminal per i viaggi nello spazio e che ci capiti di prendere un vecchio eurostar (alias Pendolino) per andare in Calabria e tre ore e mezzo di viaggio soltanto ci sembrano uno spazio luce accettabile.
Bella storia sig. ra Giulia, il racconto del quartiere e dei personggi ad esso collegati, la storia stessa di Masaniello e tutto il corollario sono narrati in maniera davvero godibile. Vedo però che Lei ha solo descritto le specialità dell’osteria senza aggiungere commenti. Questo Le fa onore. Probabilmente è rimasta un pò delusa come me della bontà dei piatti stessi. Ci sono stato a cena qualche mese fa e con estrema sincerità non ne conservo un buon ricordo.Cibo appena passabile personale poco cordiale e conto decisamente salato.
Certamente era una serata no.
Lode ad una eccezionale Contastorie (nell’accezione positiva del termine ovviamente, come Aedo). Davvero complimenti dovrebbero proporla come promotrice della città. Riesce a stimolare la curiosità di conoscere il locale con tutta la zona; sarei curiosissimo di conoscere anche le fonti dei suoi racconti, che immagino custodisca gelosamente…….
Quel palazzo, (non quello in foto ma quello di fronte) era di mio nonno. All’ultimo piano dove da bammbino andavo spesso, abitava mia zia, e Nennella l’acquafrescaia mi prendeva un braccio e diceva a mia madre signurì, ma quant’è bello stu criatur’. Più tardi più o meno docicenne ricordo le sfide con mio cugkino a scendere a rotta di collo le scalelle di Santa Barbara. E ricordo ancora, allinizio di Via dei Banchi Nuovi la modisteria Dragotti doce mamma si faceva confezionare i cappellini. Grazie Giulia, mi hai fatto ricordare unpezzo della mia vita da fanciullo che pcredevo perso per sempre. Grazie ancora.
Bellissimo post, grazie!
OGNUNO HA IL SUO SOGNO:IL MIO E’ DI SERIE A PASSEGGIARE NELLA NAPOLI DEI MIEI RICORDI E…VISITARE UNA PER UNA LE TRATTORIE DELLE TUE SUCCULENTI RECENSIONI CON QUALCHE SANA ABBOFFATA!
Sto segnando da tempo le recensioni di Giulia … e non e’ facile avere delle priorita’.
Per te Giuseppina ti consiglio di cominciare al piu’ presto, in quanto se Giulia continua con questo
ritmo la tua “passeggita” richiedera’ settimane e portera’ problemi di sovrappeso :)