Montiano a Paestum Wine Festival: verticale del grande Merlot della Famiglia Cotarella


Montiano

Montiano

di Raffaele Mosca

Otto annate di Montiano, il vino di punta della famiglia Cotarella. Un rosso prodotto in terra di bianchi, seguendo il principio secondo il quale “la tradizione va bene finché non diventa una palla al piede”. Concetto che Renzo e Riccardo Cotarella, due dei personaggi più importanti del vino italiano nell’ultimo quarantennio, il primo super-consulente e presidente di Assoenologi e il secondo amministratore delegato di Antinori, hanno seguito per tutta la loro fortunata carriera, spesso rompendo gli schemi classici per produrre vini pionieristici, che hanno portato alle luci della ribalta territori ignorati fino a quel momento dal grande pubblico.
Agli inizi degli anni 90’, Riccardo e Renzo erano già sulla cresta dell’onda, forti di svariati progetti di successo, compreso quello del Cervaro della Sala, il primo grande bianco italiano nato a Ficulle, vicino Orvieto, da un’intuizione avuta da Renzo e dal Marchese Antinori nel corso di un viaggio in Francia. Anche il Montiano nacque concettualmente in un viaggio: Riccardo andò a Bordeaux e tornò con l’idea di produrre un grande Merlot in stile rive droite a casa sua, a Montefiascone, comune sulle sponde del Lago di Bolsena, al confine tra Lazio e Umbria, dove da più di mezzo secolo ha sede Falesco, l’azienda di famiglia. Piantò barbatelle di Pomerol sulle colline vulcaniche di quella parte della Tuscia, nel bel mezzo di un mare di uve bianche – Roscetto in primis– e imbottigliò la prima annata nel 1993. Il successo arrivò pochi anni dopo, con i 95 punti assegnati da Robert Parker al Montiano 1995.

Sono passati ventinove anni da quegli inizi e, nel frattanto, il Montiano è diventato un vino simbolo, che può piacere, non piacere, ma di cui non si può negare l’importanza storica. E’ il Merlot italiano più importante prodotto al di fuori della Toscana; ha continuato a ricevere punteggi importanti dalla critica internazionale, ottenuto da premi tutte le guide di settore, ed è tra le poche etichette laziali che godono di notorietà internazionale (anche se la cantina della Falesco – oggi rinominata Cotarella – è stata spostata sull’altro lato del confine, a Montecchio, provincia di Terni).

Il Montiano di Famiglia Cotarella

L’impostazione del vino è leggermente cambiata dopo il recente passaggio generazionale.
Alla guida sono subentrate le Cotarella Sisters – Dominga, Marta ed Enrica – che sono attive anche su altri fronti, dalla formazione di personale di sala con Intrecci agli eventi benefici con la loro fondazione. In cantina, invece, ha preso il posto di comando Pierpaolo Chiasso, marito di Dominga e genero di Riccardo, che ha seguito la transizione del Montiano verso uno stile più fine, votato all’equilibrio più che alla potenza, con una riduzione della produzione, un accorciamento progressivo delle macerazioni, il ricorso a barrique con tostature più lunghe e quindi meno impattanti. “Sue” sono le annate 2016 e 2018, che segnano il cambio decisivo di passo, con nasi più fragranti e sorsi che travalicano gli stereotipi sul Merlot, abbinando stratificazione aromatica e scorrevolezza.

La verticale, condotta da Luciano Pignataro e Paolo Lauciani, ha messo in chiaro la longevità del Montiano. Il Merlot di suo è una varietà che non tiene sempre bene se non è spalleggiata dai cugini Cabernet, ma che, quando è di qualità sopraffina e riesce a superare un certo orizzontale temporale, dispensa soddisfazioni enormi, perché acquista molto in profondità e tridimensionalità aromatica senza perdere quella parte fruttata golosa che è alla radice del suo successo. E gli otto millesimi di Montiano hanno proprio questo come fil rouge: il frutto che non perde mai vigore, la grazia e la rotondità tipica dei vini della riva destra bordolese, che va a braccetto con la struttura data dalla latitudine più meridionale.

La verticale

2005
La sensazione immediata è di grande densità: crema di caffè, boero e prugna, sciroppo di more, liquirizia, tabacco, nocciola tostata e un sentore terroso che sfuma sul foie gras. E’ molto concentrato, ma anche molto giovanile. Ha mantenuto integrità e compostezza, ampiezza palatale calibrata dal tannino abbastanza reattivo. Chiude tostato e mentolato, senza neppure la minima traccia di ossidazione.

2007
“Annata calda e regolare – spiega Luciano Pignataro – gli enologi hanno quasi rubato lo stipendio”. Il profilo, in effetti, emana questo senso di calore, concedendo profumi evoluti di scatola da sigari, cioccolato fondente, acquavite ai mirtilli e fiori appassiti. L’impianto gustativo è sempre largo, avvolgente, carico di frutto, ma il tannino è un po’ più rugoso e asciuga leggermente il finale che insiste su toni di sottobosco e cioccolato. Meno pimpante del precedente, ma non cedevole.

2008
Ritorno alle note fruttate intese del 2005, ma qui la parte boschiva viene meno in favore di spezie dolci e refoli mentolati. Il sorso è il più vitale e reattivo fino a questo momento: l’acidità pimpante calibra la mole di frutto e accompagna il finale lungo su toni balsamici.

2009
Meno dolce dei precedenti: il frutto vira sulla visciola, sulla giuggiola e s’intreccia con toni di pellame e tabacco mentolato. Il sorso ha somiglianze con la 2008, ma il tannino è un po’ più in lizza, dà grinta e spessore al finale su toni di liquirizia e grafite.

2012
Apertura floreale – rosa rossa in particolare – e poi caffè ed after eight, amarena e qualche cenno vegetale fine. Ha una bocca solida e composta, con tannini che spingono e dinamizzano il corpo, il solito frutto in una declinazione più fragrante e un finale incalzato da ritorni fumè, “ timbro di fabbrica dei suoli vulcanici”, suggerisce Paolo Lauciani.

2015

Qui si comincia ad avvertire il cambio di passo: ibisco e tè nero prendono il primo posto, il frutto viene dopo la parte balsamica e un che di ferroso, ematico che dà la terza dimensione. La polpa è meno abbondante e l’alcol quasi impercettibile, il nerbo acido dà fluidità insieme ad un tannino magistralmente estratto. Non per forza un Montiano “migliore”, ma molto in linea con il gusto contemporaneo.

2016
La prima annata gestita in toto dalle sisters e da Pierpaolo. Ha un profilo ancor più fresco della ‘15, giocato su cenni vegetali fini, seguiti da china e cardamomo, gelatina di fragola e fiori rossi a go go. E’ longilineo ed arioso, con un tannino in fase di assestamento, acidità ben profilata, e poi grafite e legno di cedro, cannella e liquore ai mirtilli a delineare una chiusura vellutata in pieno stile Pomerol.

2018
Il più giovane e anche il meno esuberante da un punto di vista olfattivo. Profuma di more di rovo, susina nera e inchiostro, cacao in polvere e rosa damascena, con qualche refolo fumè a completare il disegno. Ha più materia e più maturità fruttata del 2016 – per una questione d’annata probabilmente – ma la stessa freschezza di fondo, rafforzata dal tannino vispo. Cenni di spezie e tostatura segnano il finale di ottima distensione.
Sicuramente godibile, ma non c’è ragione di affrettarsi a stapparlo.