Mitchell Davis a Lsdm: quello che conta sono i nostri soldi nelle mani giuste. Il mio eroe italiano? Massimo Bottura
Oggi Mitchell Davis apre il congresso di Lsdm a Paestum. Ecco l’intervista che ha rilasciato al Mattino per lo speciale dedicato al congresso.
di Luca Marfé
Mitchell Davis, 49 anni, vice presidente esecutivo della James Beard Foundation. Ma anche giornalista, scrittore, autore di libri e programmi radiofonici e, in definitiva, una delle figure più autorevoli dell’intero universo food a livello mondiale.
La fondazione, che ha sede a New York, non ha scopo di lucro e si prefigge di celebrare, promuovere e premiare chef e addetti ai lavori in grado di rendere la cucina americana più buona, più variegata e più sostenibile. Davis incarna tutto questo ed è pronto ad esportare la sua visione fino a Paestum, per Le Strade Della Mozzarella 2018. Sarà lui, infatti, ad aprire il congresso.
Tutto pronto per LSDM 2018. Che cosa si aspetta da questo appuntamento?
«Mi aspetto di mangiare un sacco di mozzarella! La buona tavola è il mio mestiere, eppure ogni volta che metto piede in Italia resto davvero impressionato dalla qualità degli ingredienti. Non solo. Siete maestri di atmosfere e nessuno come voi è in grado di vivere il cibo così, come una grande festa. Sono molto emozionato!».
Mr.Davis, lei l’Italia la conosce molto bene.
«Sì, sono un vostro fan. Amo la pizza, ma non ho un piatto preferito. Ho trascorso molto tempo al nord, in particolare in Toscana e in Lombardia, dove ho vissuto per un paio d’anni. Ma conosco poco le regioni del Sud. Eppure, paradossalmente, sono proprio quelle che amo di più. Napoli e l’intera Campania, infatti, dominano la scena qui negli Stati Uniti e quindi è un po’ come se vi frequentassi da sempre».
Napoli è tutto un mondo e lei lo sa. Quando c’è stato la prima volta? Cosa ha pensato?
«Adoro Napoli. La prima volta? 27 anni fa. Ho pensato: “Eccomi, sono a casa”. Amo i valori, solidi come lo erano un tempo. Tradizione, folklore, partecipazione assidua e appassionata alla vita quotidiana. Napoli è tutto: storia e caos che camminano fianco a fianco. Una fusione perfetta, bellissima. Come bellissima è l’Italia intera. Ci sono stato in almeno 50 occasioni, è grande sì e no due terzi della sola California, ma c’è talmente tanto da vedere che ogni volta mi sembra di scoprire cose nuove».
La grande bellezza.
«Già, la grande bellezza. E, tra le altre cose, è proprio la bellezza del cibo che celebriamo nella Beard Foundation. Mi viene in mente un aneddoto fantastico! Vent’anni fa arrivo a Las Vegas, entro in un hotel ed inizio a fare il check-in. Alle spalle della ragazza che mi accoglie c’è uno schermo enorme. Scritte, slogan, poi lo spot di un ristorante: “Da noi il cibo italiano è talmente autentico che penserete di essere a…New York!”».Incredibile! New York che diventa punto di riferimento per la cucina italiana! Al di là dello slogan più o meno azzeccato, però, questo la dice lunga sul legame che esiste tra noi e voi».
Come sta cambiando l’universo del food con l’emergere dei blogger? Quanto conta oggi l’opinione di un giornalista tradizionale e quanto invece quella di un influencer?
«In Italia c’è una sorta di conflitto tra vecchio e nuovo. Generazioni diverse che si misurano in un confronto-scontro. Qui no. Qui svettano entrambe le figure, seppur con sfumature differenti. Cuochi e ristoratori sono attentissimi ai volti social, soprattutto se c’è di mezzo un pubblico vasto. Per il business, si tratta dello spot più immediato e forse più importante. Per la reputazione, però, la penna di un giornalista di peso prevale. Qui in America, chi fa questo mestiere è anche iperattivo sul web. Insomma, i giornalisti sono anche blogger e viceversa».
Tutti a fotografare i piatti, allora.
«Eh, già. Anche se la fotografia “piatta” non funziona più. Non è in grado di rendere l’emozione che dovrebbe. Può sembrare una banalità, ma al di là dell’estetica, sapore e profumi non si possono trasmettere. E allora bisogna trasmettere l’idea. L’atto del consumare il cibo supera così l’immagine del cibo stesso».
E lei come vive questo suo ruolo di giornalista-influencer? Sente una certa responsabilità nel suggerire un posto anziché un altro?
«Non sono sicuro di essere un influencer. Ma ciò che conta di più è che l’esperienza sia autentica nel suo complesso. E questo è importante ovunque: in un ristorante fine dining, in una trattoria, persino nello street food. Ed è fondamentale capire dove finisce il denaro affinché le mani giuste, quelle di chi sta facendo bene, possano sviluppare un progetto o addirittura una visione. Tutto fuorché una presa in giro per il cliente, vero protagonista di questo immenso show».
Per concludere: il suo eroe italiano sul fronte della cucina?
«Eroe è una parola grossa, ma se devo scegliere un nome, dico Massimo Bottura. Un genio, un grande motivo d’ispirazione per me».
Proprio come Mitchell Davis. Un genio, un grande motivo d’ispirazione per noi.