Menu Degustazione / Leiter am Waal, Algund – Lagundo (BZ)
di Fabrizio Scarpato
“Ecco il pane”. “Grazie”. “Volentieri”. La ragazza ha le guance arrossate, non si sa se per un filo di affanno o per una eccessiva esposizione al sole di montagna: risponde sempre “volentieri”, e a pensarci bene è una dichiarazione di intenti. Sorride, persino. Ben diverso dalla solerzia distratta e sbrigativa subita la sera prima in un mangificio seriale poco distante da qui, più a valle, immerso nei meleti. Senza contare che gli occhi blu della padrona di casa risultano infinitamente più accoglienti rispetto alla brusca accigliosità di un signore in camicia a righe che ieri passava ossessivamente tra i tavoli, rassettandoli uno via l’altro, per raccattare nuovi numeri, nient’altro che numeri. Questo per dire che in poche centinaia di metri si possono trovare diversi comportamenti, diverse sensibilità, che rivelano differenti consapevolezze. Qui, stasera, siamo al Leiter am Waal e tutto sembra scorrere più serenamente. Sarà per via dei vigneti che crescono tutt’attorno, sarà per la passeggiata decisamente suggestiva che collega le vie d’acqua meranesi dalla Val Venosta alla Val Passiria attraverso Merano, sarà, appunto, per lo sciabordìo incessante del torrentello che anima la roggia: vivo, lucente, carico di storia. Leiter è proprio sulla roggia di Lagundo, è lì da secoli, perché da qui si governava la distribuzione delle acque di irrigazione verso la piana sottostante: un pergolato tra le vigne, grandi tavoli di legno, una bella terrazza, e un paio di stube luminose, calde di legni diversi, le sedie dai cuori intagliati, i fiori freschi e un tovagliato bianco, intatto e luminoso, come quella ragazza, come, par di capire, l’idea che anima il posto, in cui un sentimento identitario riesce ad esprimersi ancora con una certa purezza, attraverso riferimenti acquisiti, assimilati, nonostante il turismo, nonostante i grandi numeri, nonostante le generazioni che passano.
Intanto il “saper fare”, testimoniato da un Prosciutto cotto fatto in casa decisamente pregevole, la fibra apprezzabile, il profumo speziato, il grasso ancora più buono.
Potrebbe essere anche più spinto dal punto di vista organolettico, ma non si può negare che con la complicità del kren, dei grissini al sesamo, del pane nero e soprattutto di qualche pezzo di schuttelbrott, il tutto disegna un arco austroungarico, che dal Tirolo porta al Friuli, sconfinamento in Slovenia compreso.
E poi c’è la “stagionalità” che stasera gira attorno a una splendida Zuppa di peperoni gialli, perfettamente addensata, confortevolmente solo tiepida, per smussare l’escursione termica di fine estate, e impreziosita dal morso di filetti di salmerino affumicato, per una cucchiaiata persino elegante, in qualche modo fine.
Mi verso tre dita di schiava, scelta sfusa perché mi andava così: bellissimo colore, quasi quello delle gote della ragazza, trasparente e sufficientemente scapigliata nel sorso da resettare facilmente il palato, e invitarti a berne ancora, anche perché finalmente servita fresca, a temperatura di cantina, sbarazzina e pimpante: a pensarci bene, forse, in certi luoghi, nonostante una carta dei vini anche variegata, questo è il modo giusto di bere, sincero, vivo, diretto.
Ma è quando si fanno i conti con la “storia” che occorrono spalle grandi, e anche una certa precisione: perché non ha senso tradurre la Wienerschnitzel in Cotoletta alla milanese. Semplicemente perché questa non è una costoletta di vitello, perché è sottilissima, perché è senza osso, perché è grande, perché la panatura è bitorzoluta, e chissà quant’altro (e non mi si venga a ricordare l’opportunista orecchia di elefante, della quale poco interessa, a me e all’apparato uditivo dei proboscidati). Semplicemente perché è cosa diversa, per di più con storia e dignità tali da essere bastevoli a se stesse, fino a rivendicare a voce alta di esser chiamata col proprio nome: wienerschnitzel (se abbiamo imparato a dire wurstel, impareremo anche in questo caso). Semplicemente, infine, perché è un piccolo capolavoro: grande oltre i confini del piatto, leggera, asciutta, fragrante, vagamente aromatica, è buona da sola e stuzzica una tale voracità golosa che quasi dimentichi le fantastiche patate saltate in padella (roestkartoffeln) e il non disprezzabile aiuto acido di una confettura di mirtilli che accompagna deliziosamente la carne (molto più del trito limone di ordinanza) ma che grida vendetta a vederla costretta in quegli imbarazzanti vasettini trasparenti, posti direttamente sui piatti di portata.
Sono le nove meno un quarto e per queste latitudini si è fatto tardi. La cucina chiude alle nove e siamo rimasti soli nella stube. I ragazzi sparecchiano con discrezione, preparano i tavoli, stendono le tovaglie con cura e sembrano contenti. La ragazza non dimentica i fiori, anche se non verrà più nessuno, ma ho la sensazione che lo facciano anche per noi, per farci terminare la cena in un ambiente confortevole e pulito. Forse non c’entra niente, ma certi posti sembra che cucinino solo per te. Il bello è che te ne compiaci, affascinato da gesti spontanei e da pietanze che raccontano piccole grandi storie con parole semplici, spesso la cosa più difficile da fare.
Forse è questo il significato di “tradizione”, una contemporaneità nuda, viva e rispettosa, frutto di infinite sedimentazioni, come rocce ortogneiss del Passirio, come questo Canederlo all’albicocca, opulento, grasso e grosso, esageratamente dolce, immerso in una bagna di zucchero grezzo: sai già che nella notte farà accelerare i battiti del tuo cuore, ma è carico di racconti e profumi del luogo, e con l’aiuto niente affatto trascurabile dei frutti di bosco di contorno, lo leggi tutto, fino in fondo, tra effluvi di cannella.
Ma per ora il cuore batte lento, e attraverso il rosso melagrana della schiava immagini quella stessa tavola con l’alternarsi delle stagioni: il giallo dell’autunno, le castagne, la neve, la bellezza del fuoco in inverno, le parole, gli sguardi, le carezze. Succede, quando stai bene. Il bel Danubio blu degli occhi della signora ci saluta. “Arrivederci”. E questa volta sei tu che rispondi: “Volentieri”.
Leiter am Waal
Plars di Mezzo
Algund – Lagundo
2 Commenti
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Occhi da bere schietti e sinceri e ti dimentichi anche il bicchiere per abbandonarti volentieri al piacere del dolce sentire il tempo in divenire come se non dovesse mai finire.FM.
Bel commento e bel post, purtroppo, o per fortuna, la confettura di mirtilli è terminata stamattina…