Menu degustazione / Il Marin, Genova
di Fabrizio Scarpato
Sul tavolo nudo, tòa nùa, arrivano una focaccia e il menu, disegnato da Francesco Musante: come dire che, se per caso non me ne fossi accorto, sono a Genova. Nel disegno una coppia brinda al chiaro di luna, lei biondina, lui, in improbabile redingote e cappello a cilindro, tiene nella mano il filo di un palloncino, più facilmente di una fantasia, di un piacere, di un’appartenenza (beato lui): il palloncino è un pesce, magari volante come i sogni, molto probabilmente un’acciuga.
E poi sullo stesso tavolo nudo, sopra un mucchietto di sassi levigati, arriva davvero un’acciuga, fritta, con uno sbuffo di salsa gialla: un unico boccone, tiepido, amaricante e acido, che in fondo è tutto un programma, una dichiarazione di intenti e una affermazione di territorialità, nel senso di esplicitazione di un carattere, di un modo di essere. Ligure, a farla breve. Che poi, come sappiamo, da queste parti si voltano istintivamente le spalle al mare, guardando terra come luogo di approdo, affetti e occupazioni, che sono il più delle volte contadine, sempre difficili, in continuo conflitto con i monti e le colline a ridosso del mare.
Sopra la cucina a vista del Marin, tra le altre, c’è una frase di Ivano Fossati secondo il quale chi guarda Genova deve sapere che Genova si vede solo dal mare: e questo ristorante, che sembra la tolda di un piroscafo attraccato di poppa dentro Caricamento, con la prua incastrata tra Il Bigo e la Ruota Panoramica, lo sa, lo vuole, è predisposto perché da quella tòa nua si possa capire la città che ci ospita. Così dalla grande vetrata a sbalzo scruto i palazzi dai colori pastello che riempiono le colline come un alveare, o mazzi di matite, a strapiombo, da Righi (riveddo o Righi e me s’astrenze o cheu) fino al Porto Antico, mentre la nave mi offre quel che ha ereditato da un lungo viaggio immaginario: bao, acciughe, cetrioli, una farinata di ceci croccante e un tè Kombucha fermentato e venato di liquirizia, servito in provetta (della quale onestamente e professionalmente avrei anche fatto a meno…).
Sbang, palato resettato e divertimento a palla, tanto da richiedere subito una pausa sentimentale, una specie di cibo di conforto alla ligure, ovvero un cappuccino di baccalà, grissini all’acqua, briosce di sardenaira, burro aromatizzato alle acciughe e una marola di pane fumante di bontà amorevolmente infinita.
Ecco, ora, assicurate le funi alle bitte, finiti i benvenuti (che per dei liguri son sembrati persino eccessivamente generosi), si può cominciare, lo ammetto, ormai conquistato e inebetito come un lovasso. Dal cibo, ma anche dagli occhi delle giovani donne che si muovono in sala con eleganza e discrezione: puntuali, preparate e partecipi hanno un solo modo per interagire col cliente, gli occhi. Le mascherine, le maledette mascherine, hanno evidenziato come le donne possano ridere, parlare e vivere anche solo con gli occhi, senza bisogno della bocca. Hanno una marcia in più rispetto a uomini asfittici e inespressivi, incapaci di trasmettere alcunché dietro quel pezzo di stoffa. Le donne no; e per piangere, eventualmente, non ci sono problemi. Ecco, la trasparenza degli occhi delle ragazze, mi porta a cogliere certe similitudini con la cucina di Marco Visciola, che è leggibile e al tempo stesso complessa, verticale e con pochi compromessi, tecnica senza fronzoli e senza perder di vista le cose importanti, golosa senza esser sdolcinata. E poi il cuoco ci mette del suo con una particolare predilezione per il fuoco cui è dedicato un intero menu, con tutte le variazioni sul tema, dal fumo alla brace, dalla fiamma alla cenere. Perché se piroscafo deve essere, piroscafo sia.
Così è splendidamente croccante e fumée la pelle dello Sgombro, di carne finalmente chiara e soda, in cui pesche e zucchine trombetta se la battono con una riduzione di Aperol a chi lascia il segno in un piatto fresco ed equilibrato che fa da antipasto ai Tortelli ripieni di pesto genovese, cremoso di patate e fagiolini, il piatto che mi ha scombicchierato di meno, potente ma con dei passaggi a vuoto nella consistenza, nel morso. Liguritudine a manate: verdure, pesce povero e pesto col basilico buono, questo va detto.
Finchè non scende il comandante (non so più come chiamare il cuoco) a shakerare al tavolo un funambolico Spaghetto Martini, in cui la pasta, che potrebbe essere anche un po’ più tirata, si increma dell’emulsione di limone, colatura di alici e scalogno per poi adagiarsi su una salsa di olive verdi, avvantaggiandosi del tocco di un paio di cucchiaini di caviale Oscietra e di uno spruzzo di gin ligure, manco a dirlo aromatizzato alle olive taggiasche.
Una vera schioppettata, che la macaia ci fa ‘n belino: acidità controllata, frenata e governata attraverso stille di sapidità e barlumi di dolcezza, cui, nemmen tanto disperatamente, mi sforzo di far caso, perché la forchetta va da sola e il palato imbastisce il fatidico e magriniano veglione del tritello, che come tutte le feste dura troppo poco. Dopo però bisogna mettere i lenti, così intraprendo un corpo a corpo, assaporando la vena dolcemente e sfacciatamente sanguigna della Finanziera dal Mare, quinto quarto in cui entra di tutto, come se il mercato del pesce fosse prossimo ad abbassare la saracinesca (e a ‘ste panse veue cose che daià, cose da beive, cose da mangiä…) svendendo fegati e trippe, ricci e fasolari, coralli e muscoli, lumache e lingue di merluzzo, e chissà cos’altro, che solo una mano e una fantasia acrobatica e leggera potevano amalgamare camminando sul filo senza rete, per quattro o cinque cucchiai che riportano indietro nel tempo, profondamente verticali – quando giravo la testa ai polpi o imbastivo esche coi muscoli – cui il tocco agrodolce di verdure croccanti e variopinte regala ulteriore complessità, ma anche un salvifico senso ludico. Potrei sballottarmi in bocca una gollata di pigato e inondare di sapidità un palato provato dalle montagne russe: invece arriva un secondo servizio, un mini hamburger di uova di ricciola, una foglia di lattuga e due puntini rossi. Ben presto scopro che sono una salsa piccante che ha il compito di dare la sveglia, chiudendo un cerchio.
Non so poi da quale anfratto recondito della nave sia uscito il fuochista (tanto meno quale fosse il suo abbigliamento): so solo che il Pescato Asado è un trancio di ombrina che profuma di cortecce di bosco, prepotente di quel fumo buono e fragrante dei campeggi di gioventù, delle chitarre intorno al fuoco, quando ad incendiarsi era soprattutto il cuore.
Cartoline di ricordi, come quelle ora sul tavolo spedite da posti vicini e lontani, dove la nave potrebbe essere passata, anche solo col pensiero (nel qual caso il mare è un optional), anche solo per un moto di nostalgia: quattro dolci, quattro località italiane. Scelgo il sud: e se Noto mi regala una bella complessità barocca un po’ scontata tra cioccolato, panna cotta e passito, Capri sfonda la porta sempre aperta della predilezione per la dolcezza nascosta e non ostentata, per i caratteri acidi che svelano inopinate venature romantiche, tra pomodori e mozzarella in diverse consistenze, la composta e l’ortaggio, la crema e il gelato.
Ora sembra davvero di sentire l’eco di mille voci mediterranee, Genova risplende bianca sotto il sole, il vento fa frullare vorticosamente le vele di Renzo Piano come nemmeno Chris Froome sulla Planche des Belles Filles, Musante ha coltivato e stimolato quel po’ di immaginazione che mi resta, il Marin ha messo del suo nel raccontare fin nelle viscere (è il caso di dire) una città, e io ho ancora una cosa molto importante da dire, che riassume tutto (rendendo inequivocabilmente vano il mio sforzo narrativo): la focaccia, quella da cui siamo partiti, era buonissima.
2 Commenti
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Quando, nelle partite casalinghe, cali l’asso di briscola, non ci sono c@zzi da appendere, gli avversari abbandonano il campo, è tre a zero a tavolino colmo di parole che fotografano più che d’immagini…e immagini di mordere quella focaccia ad occhi chiusi come si conviene
Minchia!
Lunghissimo, rispetto alla stile di Fabrizio Scarpato. Ma l’ho gustato. Perché amo Genova e… ce l’ha fatta vedere.
E poi c’è anche qualche piatto di cui voglio conoscere la ricetta (andando a cercarla sul web).
Fabrizio S, anche ermetico, ti leggo sempre.
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Qualche volta facci sentire anche un po’ di… critica… quando non proprio tutto ti soddisfa.
Saluti :-)