Menu Degustazione / Per Me Giulio Terrinoni: i Tappi. Roma
di Fabrizio Scarpato
Per me Giulio Terrinoni. Roma ha questo di bello: che riesce ad addolcire le cose. Anche una giornata di pioggia intensa, come questa. Saranno i pini, che si piegano con aria protettiva, nei confronti di monumenti e passanti, compreso un loro cugino del nord, evidentemente depresso; saranno le fontane, in cui statue possenti non riescono a dissimulare una certa soddisfazione e serenità per esser nate lì e non altrove; saranno i «nasoni», che potrebbero essere personaggi disneyani coi loro malinconici nasi curvi; saranno gli archi di Ponte Sisto, così morbidi, ampi e perfetti da farti rallentare il passo, per guardare un ombrello rosso attraversare il ponte come sospeso su un filo. Sarà la luce, che non trova ostacoli, saranno i sanpietrini, che sono una coperta morbida e bagnata, adagiata sul corpo della città, saranno le pozzanghere, tra una piega e l’altra, in cui i colori delle case o l’austerità dei colonnati trovano modo di riflettersi, anche loro visibilmente compiaciuti. Saranno le buche di via Giulia che non lasciano scampo al passaggio di un traffico apparentemente disciplinato, se non fosse che passa ovunque possa passare, incurante ma paziente, oseresti dire consapevole, mentre con una certa masochistica soddisfazione cerchi di asciugare l’ennesimo, sfortunato schizzo di fanghiglia.
Sarà quel vicolo di sghimbescio tra via Giulia e via dei Banchi Vecchi, forse non a caso definito del Malpasso, sarà il pergolato che lascia intuire, pur in giornate come questa, una leggiadria da dipinto settecentesco, magari con un Rugantino qualsiasi appoggiato allo stipite della porta ad arco. Sarà il sorriso gentile di Flaminia che ci accoglie, sarà il saluto garbato di uno dei cuochi, dall’altra parte del vetro della cucina a vista, così vicino che salutare, in fondo, è quasi un gesto di autodifesa. Sarà per il calore di quella piccola sala colorata del nero dei sanpietrini del vicolo, ma decorata con un soffitto in legno a cassettoni di una certa eleganza. Sarà il silenzio, a sala piena e tavoli ravvicinati, pure troppo. Sarà che siamo a Roma, anche qui, al Per Me di Giulio Terrinoni.
Già proporre un menu in cui i piatti sono definiti Tappi, riporta, nel suono e nell’iconografia, alla Roma papalina dei film di Gigi Magni, o al teatro di Garinei e Giovannini: in realtà è un modo geniale di raccontare la propria cucina, riproponendo anche piatti della carta ma in forma ridotta, senza snaturarsi, e soprattutto senza penalizzare, e tanto meno discriminare l’avventore, avveduto o meno che sia. Ché se poi quest’ultimo è anche ligure, verrà folgorato sulla via di Damasco del piccolo, bello, buono e sincero, tanto da riproporsi di cercarlo, magari col lanternino, ovunque e comunque sarà possibile.
Chissà se quell’ombrellino rosso sul Ponte Sisto era di una giapponese. A ben vedere, la composizione del Maccarello, burrata e cavolo rosso, ricorda i nigiri giapponesi, e anche il gusto, giocato tra dolce, acido e importanti note affumigate, non fosse altro per delicatezza della tessitura, riporta a levità orientali.
Le stesse della maionese al masala del Toast di gamberi, in cui però spiccano la qualità e il morso dei crostacei a crudo, una volta tanto carnosi, per niente viscidi, complice l’azione pulente e rinfrescante di una romanissima lattughina di contorno. Passeggiate, ancora sotto una luce gentile che accarezza colori autunnali, quasi in punta di piedi, fatta salva l’impossibilità di essere a modo nel mordere con gusto quel toast dorato. La sensazione setosa riappare in una ciotola di spuma bianca, spruzzata di polvere di cipolla bruciata: il sol levante tramonta alla prima cucchiaiata, in un gioco intrigante tra la suadenza abbandonata dei muscoli, il poco riso dalla impercettibile funzione croccante e la stupefacente spuma di patate cotte nell’acqua delle cozze, che sprizza lampi salini, in contropiede e senza ritegno, per un piatto – Riso, patate e cozze – molto buono e, come dicono quelli che si vergognano di aver fame, appetitoso.
Qui il pinot bianco del Réserve della Contessa di Manincor faceva il suo dannato mestiere, adelante, ma con giudizio, anche per via di un costo al bicchiere decisamente e proporzionalmente importante, pur in una scelta alla mescita commendevolmente variegata. Capisco il livello, non grido, né mi strapazzo i capelli: aggiungeteci per soprammercato la mia origine, e il sorseggiare mi è dolce, e necessario, in questo mare.
Poi, all’improvviso, il gioco si fa duro e Roma entra nei piatti in modo deciso e diretto, senza suggestioni o rimandi d’atmosfera, ma proprio con tutta se stessa, con le piazze, i giardini e la gente nei bar. La nave, con le vele di mille lenzuola, galleggia e se ne va fin sopra il Circo Massimo, descritto da una Pappardella, ripiena di ricotta e pecorino, e totani all’arrabbiata: un rettangolo rosso di terra, circondato dal verde dei Colli, poderoso, onusto di forza e rabbia, di gloria e sangue, di morso e spessore. Corroborante, persino troppo forte, sconsigliato ai deboli di cuore.
Quello stesso cuore che non potrà che sciogliersi in lacrime quando la nave sorvolerà la Barcaccia di Piazza di Spagna, raffigurata in una piccola, soave scialuppa a due posti, uno per il pecorino e l’altro per una Trippa di rana pescatrice: pesce, dunque, ma di una consistenza imprevedibile, imprevista e variegata, che evidentemente non aspira a ricordare la trippa originale, ma che ambisce a una vita propria, fatta di identità e romanità fino all’osso (o alla lisca, se volete). E il rumore della nave sulle onde arriva nitido sino ai Fori, o magari sull’Appia Antica, con i tentacoli del Polpo arrosto, saba e bergamotto, arenati come antiche vestigia tra cespugli di broccoli e maionese: infrattati, come certi innamorati che a due a due, sciolgono le vele come i pirati.
E a quel punto diventava francamente poco importante collocare un po’ retoricamente un dessert tra i templi di Kyoto e l’alta moda autunno-inverno di Via Condotti, salvo apprezzarne le molteplici consistenze e portare con noi, sotto una pioggia inesorabile, una dolcezza tosta e confortevole, che era di quel miele indiano alla base del dolce, ma anche e soprattutto di questa tavola romana, così elegante e personale, pur in una proposta declinata in piccolo, ma al tempo stesso gentile, riconoscibile, amabile: come questa città, quasi fosse una consuetudine, quasi fosse una canzone.
È la sera dei miracoli fai attenzione / qualcuno nei vicoli di Roma / con la bocca fa a pezzi una canzone… Lontano una luce diventa sempre più grande / nella notte che sta per finire /
è la nave che fa ritorno / per portarci a dormire.
Per Me Giulio Terrinoni a Roma
Vicolo del Malpasso, 9
Crediti: Lucio Dalla, La sera dei miracoli.
Per me Giulio Terrinoni