Mauro Uliassi: Lab 2019, i piatti della prima stagione da tristellato
di Giulia Gavagnin
Mauro Uliassi Lab 2019. Nessun genio ne è rimasto immune, dal premio Nobel Mario Vargas Llosa al premio Nobel mancato che è stato più genio di tutti, Philip Roth. E’ il “blocco dello scrittore” che perseguita non solo chi vive di carta e penna, ma tutti i compositori, musicisti compresi. Quella sensazione di non riuscire a iniziare, costruire, concludere. La mente che vaga, alla ricerca di qualcosa che ha da arrivare, ma alla fine del percorso immaginato, non c’è. E’ capitato ai premi Nobel, si diceva, e succede puntualmente ogni anno a Mauro Uliassi, il poeta dell’Adriatico. Dicembre, feste natalizie, crolla di stanchezza lo chef dopo tanti successi. Non ne parliamo neanche dopo l’anno di grazia 2018, di cui tutti sanno. Trascorrono poche ore dalla chiusura dicembrina, il ristorante si trasforma, si svuota. Mauro e compagnia se ne vanno, rimane una stanza vuota.
Chi se ne va lontano, chi resta a Senigallia a contemplare il mare d’inverno, quel “film in bianco e nero visto alla tv”. Poi, a febbraio, l’immancabile rendez-vous, perché c’è un nuovo capitolo da scrivere, il “lab”, quello mutuato da Ferran Adrià che nei nostri patri confini porta un solo nome e un solo cognome: Mauro Uliassi. “Come ci siamo riusciti lo scorso anno? Come ci sono venute le idee? Riusciremo quest’anno a essere all’altezza o addirittura a fare meglio?” si chiede ogni anno Mauro. Sembra di vederlo all’inizio del percorso, nelle giornate piovose d’inverno, come l’allenatore di una squadra. Insieme ai veterani della brigata Mauro Paolini, Luciano Serritelli, Michele Rocchi urla al cielo: “ce la faremo!”. E come un piccolo miracolo, a poco a poco, il “lab” si alza dalle profondità del mare, dallo stridere delle onde, dalle brume delle brughiere: la poesia del mare e della caccia si materializza, ancora una volta.
Il “lab” è ordine che si origina dal Caos. Ordine, perché non esiste nessun cuoco in Italia come Mauro Uliassi che sappia valorizzare ogni singolo elemento del piatto.
Gustav Mahler prestava attenzione a ogni singola sfumatura delle note e degli strumenti nelle proprie sinfonie, nelle composizioni di Uliassi non c’è un solo ingrediente che stona, una minima sfumatura che non serva al risultato finale. Cucina sinfonica, nelle tinte delicate di Debussy più che di Beethoven, con i picchi emozionali del rock amato dallo chef, dai Pink Floyd a Carlos Santana. Alla fine del percorso Mauro ci chiede per prima cosa se ci fossero errori o semplici sbavature: avessimo voluto trovare il pelo nell’uovo, sarebbe stato il crine dell’Unicorno. “Un filo di zest di limone di troppo nell’ossobuco di mare”, azzardo. Ma è gusto personale, il limone conferisce una nota lisergica, sono io ad avere qualche problema con gli agrumi, anche perché la presunta nota viene segnata nel registro del piatto più straordinario della giornata.
Il loacker di foie gras, l’oliva, pane burro acciughe e tartufo non li scopriamo oggi, e il nostro amore resta immutato . Il burro d’ostrica ha fatto scuola, il pane rivisto secondo le direttive di Niko Romito ci coccola da un po’.
L’assalto frontale sopraggiunge con l’ostrica 2019, emulsione di ciauscolo e salsedine ghiacciata. Un’interpretazione ardita, due sensazioni grasse che procedono a braccetto in un matrimonio definitivo. Stupefacente.
Il pancotto alle mandorle e ricci di mare è già un classico della cucina di Uliassi, un’invenzione che sembra uscita dal nulla, perché non si era mai sentito prima un mix di texture e sfumature di gusto così originali e leggere.
Canocchia alla coque e salsa acida: tedierei l’uditorio se descrivessi la manifattura della salsa, Mauro l’ha spiegata per qualche minuto, mi è sembrato un procedimento difficilissimo per raggiungere un risultato così immediato, di acidità quasi primordiale, una versione leggerissima di una grande sauce hollandaise, quasi danzante.
E’ questa la caratteristica di Uliassi, che lo rende diverso da tutti: l’impalpabilità, la leggerezza, il particolare che cambia la vita. L’utilizzo degli armonici quando meno te lo aspetti. Quanti chef oggi propongono l’anguilla? Lasciamo da parte la tradizione del Delta del Po, lo squisito “bisat” sgrassato alla griglia di Maria Grazia Soncini de La Capanna di Eraclio, vessillo di un territorio. L’anguilla è difficile, è sempre un filo troppo grassa, un filo troppo rude, a volte un filo troppo bruciata, anche nelle grandi cucine.
Uliassi la propone in simbiosi con gli agrumi e non c’è nulla di quanto sopra. Un’affumicatura leggerissima di ascendenza spagnola, un’emulsione di grande freschezza che duetta con la grassezza del pesce, senza contrastarla, come fosse il concerto per due violini di Bach. L’ossobuco di mare è l’highlight della giornata, con una gremolata delicatissima e le trippe di baccalà stemperate dalla famosa zest di limone, che piacerà anche ai fans più intransigenti dell’ossobuco. Territorio e viaggi emergono nel connubio tra morchelle e mango prima di sfumare verso le paste: riproposti quest’anno i fusilloni con il lardo di polpo, un’illusione magistrale che lascia stupiti, impressionano i gobbetti con cicoria, ostriche e lumache, perfettamente bilanciati tra note salmastre e dolci-amare.
E’ “fuori di testa” la variazione di agnello dei Monti Sibillini con pepe Timut, accompagnato da crostoni di pane immersi nel brodo di pecora e finiti con formaggio pecorino: solo parti della testa d’agnello, in ossequio al mantra che vieta di sprecare tagli preziosi dell’animale.
C’è il cervello, la carne degli interstizi, persino l’occhio che ci osserva, come in un quadro di Escher, “l’immagine di colui che guida noi tutti”. E’ intenso, è agnello marchigiano, c’è tutto il sapore della pastorizia, di una terra contigua a quella del famoso poeta che invitava i pastori a migrare a Settembre. Non è un piatto per tutti, ma è perfetto. Concludiamo con una bavarese al gelato di rosmarino e liquore Luxardo e un mirabolante soufflè al cioccolato e Lagavulin.
Fuori soffia il vento, il mare si increspa, suonano note di pioggia, la sabbia si alza sulla banchina di Levante. Ce ne andiamo dopo un lungo sorso di Armagnac del 1974, con una strana sensazione: che questo sia il miglior Uliassi di sempre.