Matilde Serao, Il Ventre di Napoli: come mangiavano i napoletani
di Leo Ciomei
Periodo pre-natalizio ma più che Natale sembra che arrivi la Pasqua. Ma se nevica dappertutto ed è un freddo cane, direte voi! No, intendo per la Quaresima che ci tocca fare a causa dell’IMU, del calo del lavoro, ecc…
Allora giusto per ricordare a tutti che, almeno per il versante cibo, ci ritroviamo in un momento di (relativo) benessere e, concedetemelo, per fare un regalo al nostro Luciano Pignataro trascrivo qui sotto un capitolo del libro “Il ventre di Napoli” della quasi dimenticata grande scrittrice Matilde Serao, fondatrice del quotidiano Il Mattino. Il libro riprende un po’ le tematiche de “Le ventre de Paris”, scritto pochi anni prima da Emile Zola e narra la vita quotidiana a Napoli, prendendo a pretesto la proposta del ministro Depretis di bonificare la città sventrandone appunto i quartieri più poveri. Il capitolo si intitola “Quello che mangiano” e descrive le povere abitudini culinarie dei napoletani alla fine del 1800.
Troverete la lettura molto piacevole e leggendo fra le righe anche molte similitudini con i giorni odierni.
QUELLO CHE MANGIANO
Un giorno, un industriale Napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni culinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava; il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse: poi, andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana.
È vero, infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano.
Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze, tagliate in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante: e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvigione è finita, il pizzaiuolo la rifornisce sino a notte.
Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno entro cui stanno queste fette di pizza, e girano pei vicoli e danno in un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne, sedute sullo scalino del tasso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.
Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini minutissimi, fritti nell’olio, quei pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli; dallo stesso friggitore si hanno, per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano ci bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’ altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco cotte nell’acqua; per un soldo, una povera donna che allatta suo figlio e soffia sopra un braciere di terracotta, dà due spighe di granturco arrostite. Dall’ oste, per un soldo si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetto o di molignane fritte nell’olio e poi condite con pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo in cui sta intasata, come una conserva e da cui si toglie con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste ci versa sopra la scapece.
Dall’oste, sempre per un soldo, si compra la spiritosa; la spiritosa è fatta di pastinache gialle cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano, aglio e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, a’ spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba fritta è cotta in un olio forte e nero, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più eccitato palato meridionale.
Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quattro quartieri popolari hanno uno di quelli osti che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone.
Anzi tutto, quest’apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto, ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante, con l’oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografìe napoletane, che gl’inglesi comprano, accanto alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il bacco del maccaronaro. Questi maccheroni si vendono a piattelli di due soldi e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie, nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l’oste, perchè vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio e un po’ più di maccheroni.
Con due soldi si compra un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo; per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene. Appena ha tre soldi, quattro soldi, otto soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comprare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.
Con quattro soldi si fa una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o una insalata di patate cotte e di barbabietole; o una insalata di broccoli di rape o una insalata di citrioli freschi. La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria o tutte quest’erbe insieme, la cosidetta mmenesta maretata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.
Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta e che si chiama efficacemente la monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.
Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo alla volta. A Napoli, con un soldo, si hanno sei peruzze, un po’ bacate, ma non importa; si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole; si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che son riusciti male, vale a dire biancastri.
Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi, di mellone e di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia come se avesse mangiato.
La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.
***
Questionario: Carne arrosto? — Il popolo napoletano non ne mangia mai.
Carne in umido? — Qualche volta, alla domenica o nelle grandi feste – ma è di maiale o di agnello.
Brodo di carne? — Il popolo napoletano lo ignora.
Vino? — Alla domenica, qualche volta: bianco, l’asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi; questo tinge di azzurro la tovaglia.
Acqua? — Sempre: e cattiva.
P.S. Spero che a tutti i lettori campani faccia piacere che un toscano si sia permesso di inserire questo pezzo di cultura partenopea.
4 Commenti
I commenti sono chiusi.
Leo, è un regalo bellissimo! per tutti noi. Soprattutto per chi lo ha letto tanto tempo fa, senza capire che tra le pagine più belle c’erano queste.
mi permetto di dire c’è il timballo di maccheroni del rè ferdinando , e la bolognese
Credo,che sarebbe interessante capire l’evoluzione dei gusti dei napoletani negli ultimi anni.A questo proposito perchè non chiedere a chi dovesse possedere antichi menù di ristoranti e trattorie Napoletane di pubblicarli su questo blog?. grazie.
che bello! conoscevo il libro ma, non avendolo mai letto, ne ignoravo il contenuto. grazie allora.