L’uomo cucina, la donna nutre – 17 Bianca Mucciolo de La Rosa Bianca ad Aquara
Ristorante La Rosa Bianca, Aquara
Località Piano
Tel.366 3426062
di Carmen Autuori
<<Ho sempre vissuto e mi sono nutrita di vibrazioni – sia positive che negative -, quelle provenienti dal mio io più profondo e quelle che assorbo dai luoghi dove sono nata e da cui non mi sono mai realmente allontanata>>, esordisce così la giovanissima e bellissima Bianca Mucciolo, dagli occhi di velluto e i capelli color ebano. È lei la titolare del ristorante La Rosa Bianca e l’ideatrice del Progetto Triticum, incentrato sul chicco di grano da cui tutto ha origine, compresa la vita.
Siamo ad Aquara, un altro dei magnifici luoghi dell’entroterra campano, affacciato sulla Valle del Calore con alle spalle i maestosi Monti Alburni, fonte d’ispirazione e allo stesso tempo attenti custodi del mondo di Bianca.
Ha solo trentadue anni che vanno moltiplicati per tre, perché tre sono le vite che ha vissuto, ognuna segnata da avvenimenti che ne hanno forgiato il carattere: l’infanzia felice, un grande dolore che l’ha scossa alle radici nel pieno della giovinezza in un momento in cui dalla vita ci si aspetta solo cose belle (da poco era diventata mamma per la seconda volta) e l’attuale rinascita.
Nel 2018 la morte improvvisa del padre, e uno tsunami si abbatte sulla vita di Bianca.
<<Sono cresciuta con l’esempio di un grande amore – mi racconta -, quello dei miei genitori, che ha generato cerchi concentrici di pura passione per il lavoro e per questa terra che è stata parte integrante del loro essere e anche del mio. Di mestiere facevano gli allevatori e gli addestratori di cavalli, ma erano poverissimi, questa è una terra tanto bella quanto difficile. Ricordo la casa senza riscaldamenti, la sera per riscaldarci sotto le coperte mia sorella ed io usavamo il phon. Poi l’apertura di un bar al centro del paese, un momento di transizione importante prima dell’apertura del ristorante nel 2009. Imparammo, proprio grazie a questa esperienza, come ci si approccia al cliente. Con mia sorella, nel tempo libero, aiutavo i miei genitori al bar, anche se spesso studiavo dietro al bancone, tra un caffè ed un cappuccino. Papà sosteneva che bisognasse imparare un mestiere sin dalla più tenera età, questo era un fatto propedeutico a qualunque forma d’indipendenza, forse aveva il presentimento che ci avrebbe lasciato presto. La sua morte ha segnato il periodo più buio della mia vita complicata. Chiusa in un dolore indicibile e arrabbiata con il mondo, diffidavo di tutto e di tutti. Ma io sono donna di montagna e come i miei Alburni dovevo resistere a qualunque tempesta. L’unica cosa che mi restava era La Rosa Bianca, il ristorante che avevano messo su i miei genitori che rappresentava la sintesi della loro vita di sacrifici. E sono ripartita da lì>>.
Bianca era stata sempre parte attiva dell’attività, si occupava insieme alla mamma della cucina, sebbene fosse attratta dalla sperimentazione e dalla ricerca che partiva dalla terra e dai suoi prodotti. Mamma Marisa è stata (ed è) una contadina vera, nulla di ciò che concerne il ciclo della natura le è estraneo, dalle erbe spontanee, all’orto, ai grani antichi, alla vigna.
La sua grande passione che conserva ancora oggi sono gli animali, sia da cortile che da latte: ognuno ha un nome. È lei che ha consegnato alla figlia la grandezza e la potenza della terra: “chi sa coltivare un orto non morirà mai di fame”, le ha ripetuto come un mantra.
Gli anni bui sono stati per Bianca anche quelli dedicati alla formazione, durante i quali ha acquisito le regole tecniche da applicare ai metodi di conservazione e di cottura dei cibi e alla lettura. Bianca legge tanto, soprattutto testi di filosofia, da cui trarre stimoli per la sua rinascita, Feuerbach e ‘L’uomo è ciò che mangia’ il suo testo preferito, manco a dirlo.
La svolta è arrivata grazie ad un bando del G.A.L. I Sentieri del Buon Vivere a cui Bianca aveva partecipato senza troppe aspettative con il Progetto Triticum. Si tratta, come dice il nome, di un progetto centrato sul frumento – nel caso specifico grano Senatore Cappelli e Saragolla – coltivato in loco e trasformato nel pastificio agricolo situato al piano inferiore del ristorante. E invece è stata proprio la sua idea ad essere vincente.
<<Tutto parte dal chicco di frumento che, insieme all’acqua, è l’elemento primordiale dell’alimentazione – spiega -, avrei potuto scegliere la trasformazione della frutta o quella del latte, ma per me il grano è un elemento che contiene un significato profondo: quello della rinascita. Siamo rinati insieme, io ed i miei chicchi.
Con un atto di grande coraggio con mia madre abbiamo estirpato circa 10.000 piante estese su tre ettari di terra e con esse 40 anni di storia vitivinicola di famiglia per piantare il nostro frumento. Ancora oggi con mamma, appena ci è possibile, facciamo lunghe passeggiate a piedi nudi nel nostro campo di grano per accogliere tutte le vibrazioni che vengono dalla terra, è il nostro modo di raccogliere energie positive, la nostra cura per il corpo e la mente.
Il mio intento è quello di portare nel piatto la metamorfosi della terra. Credo che nella vita si debba approfittare del kairos, il momento perfetto. Il mio kairos è stato proprio l’incontro con il G.A.L. I Sentieri del Buon Vivere perché mi ha permesso di rinascere. In altre parole, la mia pasta non è solo un alimento, è radici, tradizioni, resistenza unita a salubrità, ambiente e buon cibo>>.
Oggi il pastificio agricolo funziona a pieno ritmo, sfoglia, tonnarelli, tagliatelle, paccheri, mezzi paccheri – solo per citare alcuni formati – e nei progetti di Bianca c’è anche quello di creare un angolo degustazione con cucina a vista al suo interno dove gli ospiti possono assistere a tutte le fasi di lavorazione e di preparazione di quello che avranno nel piatto.
L’idea del nutrimento è eredità della nonna paterna, nonna Bianca, una sorta di sacerdotessa della cucina che si basa sulle erbe spontanee, la cucina alla “ualana”, e sulla panificazione (torna il tema del chicco di grano) centrata sulla gestione del lievito madre che in questi luoghi si chiama “luvatina”.
I ualani erano i braccianti agricoli ingaggiati nel periodo della raccolta delle olive e in quella dell’uva, ai proprietari del fondo spettava il compito di provvedere al loro pranzo che avveniva in campagna ed interrompeva la giornata di lavoro durissimo.
<<Ricordo nonna con delle enormi ceste che partiva dal paese piene di grossi cavati, quelli a tre dita che avevano questa insolita forma perché le donne lavorando nei campi non avevano certo il tempo di preparare quelli piccoli. Il condimento si trovava percorrendo i sentieri, cicoria, borragine, bieta selvatica veniva raccolta, pulita, lavata e cotta insieme alla pasta. Spesso accadeva che nonna, sempre per mancanza di tempo, usasse al posto dei cavati il pane raffermo, era un pane durissimo ma sacro, come la luvatina. Si tratta di un elemento dal forte valore simbolico legato alla condivisione del cibo e alla sacralità della famiglia. Nonna cominciava a preparare il lievito madre il lunedì per la domenica, giorno che vedeva riuniti intorno allo stesso tavolo tutti figli. Dopo aver impastato acqua e farina legava il contenitore ben coperto con una corda perché sosteneva che fosse come l’amore che va tenuto stretto, altrimenti esplode e si disperde. Nonna mi ha tramandato un patrimonio di sapienza ancestrale che ha caratterizzato la mia infanzia, uno dei miei periodi più felici nonostante le grandi difficoltà economiche>>.
La cucina “alla ualana” di Bianca Mucciolo
A La Rosa Bianca in estate si mangia immersi in un paesaggio mozzafiato, alle spalle la maestosità degli Alburni, di fronte la Valle del Calore con i suoi uliveti e le vigne rigogliose che si estendono a perdita d’occhio. Ogni elemento di arredo dell’accogliente dehor parla della storia di Bianca e della sua famiglia. Sul fondo una grande legnaia perché il fuoco, come la terra e l’acqua, fa parte degli elementi primordiali alla base della proposta gastronomica del ristorante. In un angolo una deliziosa scala, ingentilita da piante, che una volta serviva per i lavori in campagna. In inverno, invece, si è accolti nell’ampia e luminosa sala con al centro un grande camino che rimanda al calore delle case di campagna di una volta.
Attraverso i piatti Bianca accompagna il cliente nel suo mondo, una cucina autentica, di grande rispetto per la materia, a tratti ancestrale. Erbe spontanee declinate in ogni maniera possibile, a cominciare dalla minestra “spersa”, un mix di erbe spontanee ripassate in padella con pezzi di pane raffermo oppure patate e la bietola selvatica, un concentrato di gusto lontanissimo da quello a cui siamo abituati quando compriamo quella imbustata al supermercato. Tutto il vegetale proviene dall’orto di famiglia, fagiolini a metro fritti che insieme alla zucca lunga di pergola sono l’ortaggio preferito del nonno paterno. La zuppa di zucca e porcini degli Alburni e la zuppa di fagioli di Controne e lenticchie ripropongono ancora una volta i piatti dei ‘ualani’ consumati nei periodi freddi. Non manca mai la giardiniera home made, così come altre conserve di verdure “perché i prodotti dell’orto sono sacri e non va sprecato nulla”, precisa Bianca.
I salumi sono di San Rufo, provenienti da un allevamento di maiali lucani, mentre i formaggi vedono protagonisti il latte delle capre di mamma Marisa: in estate è di scena il primo sale mentre in inverno il cacioricotta, massaggiato con una miscela di olio e aceto e poi conservato in vasi di creta.
Sempre in menù i cavati giganti di nonna Bianca che vengono conditi con lo stracotto di “vernini”, piccoli pomodori autoctoni conservati in vetro oppure nei collant a mo’ di piennolo. Ho avuto la fortuna di assaggiarli anche con fonduta di caciocavallo e fichi, straordinari.
La vera specialità de la Rosa Bianca è, in assoluto, il raviolo.
<<Per fare un buon raviolo ci vuole una vita – dice Bianca -, e non è uno strorytelling. Si parte dalla capra che bisogna allevare in un certo modo per arrivare al prodotto finito. Noi usiamo solo questo tipo di ricotta il cui gusto varia in base alle stagioni perché dipende da ciò che l’animale mangia. In estate abbiamo una ricotta più setosa dato che la capra beve più acqua, e dal profumo delicato che dipende dai frutti e dai fiori caratteristici di quella stagione. In questo periodo, invece, il gusto è più intenso perché gli animali si cibano di carrube, di meline selvatiche, di ghiande. Anche la grana è più spessa proprio perché le capre bevono molto di meno>>.
Tornando alla preparazione del raviolo, si inizia alle 4 di mattina con la mungitura, poi si aggiunge il caglio ricavato dallo stomaco del capretto, si rispettano tutti i tempi di lavorazione e solo nel primo pomeriggio la ricotta è pronta per farcire la sfoglia di grano Senatore Cappelli, saragolla e uova da gallina felici, realizzata da Bianca nel suo laboratorio agricolo.
I secondi sono per lo più centrati sugli animali da cortile, da assaggiare il “pollo ruspante alla ualana”, insaporito con le erbe spontanee di stagione ed il capretto con le patate di Castelcivita.
Per dessert non mancano mai i fichi dottati essiccati al sole e il Favorito, pasta frolla impastata con lo strutto e farcita con marmellata di fichi.
Buonissimo il pan di Spagna all’uso antico, bagnato con sciroppo di limone verde e farcito con la spuma di ricotta di mamma Marisa.
Dalla terra, al grano, alla farina: tutto inizia e si conclude in un cerchio perfetto, come natura insegna. Bianca ne è perfettamente consapevole perché il chicco di grano è stato il seme della sua rinascita. Cerere è qui, ad Aquara, e possiede anche radici e, finalmente, ali per volare sempre più in alto.
Ristorante La Rosa Bianca, Aquara
Località Piano
Tel.366 3426062
1-Catia Corbelli,l’ostessa di Mormanno
2-Alessandra Civilla, la prima donna di Lecce
3-Angela Mazzaccaro, la regina dei fusilli di Felitto
4-Angelina Ceriello, I Curti di Sant’Anastasia
5-Stefania Di Pasquo, Locanda Mammi ad Agnone
6-Giovanna Voria, Corbella a Cicerale
7-Caterina Ursino dell’Officina del Gusto a Messina
8-Maria Rina, Il Ghiottone di Policastro
9-Mamma Rita della Pizzeria Elite ad Alivignano
10-Valeria Piccini, Da Caino a Montemerano
11-Mamma Filomena: l’anima de Lo Stuzzichino a Sant’Agata sui Due Golfi
12-L’uomo cucina, la donna nutre – a Paternopoli Valentina Martone, la signora dell’orto del Megaron
13- La vera storia di Assunta Pacifico del ristorante ‘A Figlia d’ ‘o Marenaro
14 -Veronica Schiera: la paladina de Le Angeliche a Palermo
15 – Laila Gramaglia, la lady di ferro del ristorante President a Pompei
16- L’uomo cucina, la donna nutre – 16 Michelina Fischetti: il ponte tra passato e futuro di Oasis Sapori- Antichi a Vallesaccarda
Con l’ausilio di una delle più belle canzoni di Branduardi (Confessioni di un malandrino)vi faccio partecipe dei ricordi di un ex “mariulo”di campagna.Il grano coltivato era la “cappella”(Senatore Cappelli)che portato al molino ritornava come farina zero(per la pasta fatta in casa) farinaccio(buona anche per il pane semintegrale)e “vrenna”(crusca)per i maiali e animali da cortile.I ravioli farciti con cacioricotta uova un po’ di prezzemolo e ricotta di capra erano nella loro semplicità(eccezionali anche semplicemente lessati ma chiaramente col ragù si alzavano in volo)il piatto principe della domenica Cilentana dove non mancavano mai le verdure coltivate o spontanee magistralmente cucinate.La “luvatina”da noi semplicemente “luvato”che spesso passava da famiglia a famiglia era un pezzo di impasto del pane tolto e messo in un piatto per poi far da lievito per l’infornata successiva cioè in media dopo due settimane.”Ualano“nel mio dialetto era il propietario dei buoi che veniva ad arare la terra che poi,assieme agli zappatori che rifinivano il suo lavoro intorno alle piante,a mezzogiorno veniva rifocillato con il cibo preparato dalle donne di famiglia che lo portavano come su detto in ampie ceste poste sulla testa con un’eleganza paragonabile a quella delle moderne indossatrici.FRANCESCO