Luigi Moio, Il Respiro del Vino per Mondadori. La scienza è più vicina allo Spirito di sciamani e stregoni
Oggi sul Mattino abbiamo pubblicato la recensione al libro di Luigi Moio. Voilà.
Ogni scienziato coltiva il sogno di spiegare il mistero della vita, svelare la magia dello spirito impalbabile custodito nei corpi e nelle cose. Come l’odore del vino, la vera ossessione di Luigi Moio che ha dedicato tutta la vita a catturare i profumi, quasi una replica del protagonista del romanzo di Suskind, Jean-Baptiste Grenouille.
«Il respiro del vino» edito da Mondadori (pp.503, 26 euro) è la sintesi del ciclopico lavoro di un uomo di scienza impegnato a studiare enzimi e molecole, fermentazioni, odori e aromi. Un tentativo meticoloso, ossessivo, preciso, di arrivare a dare una spiegazione scientifica dettagliata dell’aspetto più affascinante per gli appassionati, quello che li spinge in competizione durante le degustazioni comparate, soprattutto se condotte alla cieca: identificare per associazione i profumi rilasciati da un bicchiere di vino.
Diciamo subito che non è un libro facile anche se lo spirito, supportato dai bellissimi disegni di Ada Natale che illustrano le fasi più delicate e complicate creando un vero alfabeto illustrato della degustazione, è divulgativo. Una lettura alla portata di ciascuno ma che richiede impegno. Tutto nasce da una lezione tenuta a Milano alla quale assiste fortuitamente Laura Furlan della Mondadori, appassionata di vino e socia Ais. La proposta di fare il libro e poi un lavoro durato due anni, ossia il doppio del previsto, nel corso del quale «O Professore», Ordinario di Enologia alla Federico II e autore di almeno 200 saggi scientifici sul tema, compone il mosaico seguendo un filo logico apparentemente disordinato per gli estranei, ma preciso e compiuto sin dalle prime battute nella sua mente, proprio come la cantina che disegnò per un esame da studente della Scuola Enologica di Avellino che poi ha realizzato nella maturità a Mirabella Eclano con il supporto decisivo della moglie Laura.
Si parte dallo studio dei sensi, una parte molto efficace che introduce l’argomento partendo proprio dalla capacità umana, decisamente ridotta rispetto a tanti altri esseri viventi, di percepire il profumo delle cose. A seguire un crescendo: la caccia agli odori, le caratteristiche quasi inodori, dell’uva, la trasformazione del mosto, la trasformazione in bottiglia, il ruolo del legno, le fasi della degustazione, la funzione del tempo: in tutto venti capitoli e la conclusione davvero istruttiva: “Secondo me – scrive concludendo il volume – per degustare un vino non sono sufficienti solide conoscenze metodologiche, una vasta esperienza o una buona memoria olfattiva, ma occorre essere artisti. Se si è privi di un’allenata sensibilità estetica e di una spiccata attitudine a cogliere la bellezza dei singoli dettagli che ci circondano, è veramente difficile, se non impossibile, percepire a pieno tutte le sfumature sensoriali, e dunque emotive, che il vino è capace di inviare a chi lo beve con passione”.
La lettura arricchisce gli appassionati, consente agli iniziati di entrare in argomento, precisa bene alcuni totem sciamatici a cui si è appassionata parte della critica nell’era del 2.0, a cominciare dal ruolo del legno per finire a quello dei lieviti selezionati che, a dispetto di quel che ritiene una certa vulgata, non sono affatto omologanti per il semplice fatto che gli odori e agli aromi del vino partono dal mosto.
Il libro è anche la punta dell’iceberg di una vera e propria scuola enologica napoletana che ha origine dall’incontro tra Luigi Moio, giovane studioso in Francia, e Antonio Caggiano che lo invita a Taurasi per fare un rosso di classe. Tra esperienza sul campo (Maffini in Cilento, Marisa Cuomo in Costiera Amalfitana, Terre del Principe nell’Alto Casertano) e studi e ricerche che culminano con il rientro alla Federico II da ordinario e l’istituzione del corso di laurea in Enologia, Luigi Moio acquista un ruolo di assoluta preminenza nella nuova viticoltura campana e meridionale.
Se Riccardo Cotarella, l’altro grande nome dell’enologia impegnato con questi vitigni, è figlio di un’altra epoca, quella del professionista che doveva aggiustare in cantina i frutti di una agricoltura rurale empirica e caratterizzata da sapere orale (altro totem poi assunto come riferimento assolutamente positivo da molti del 2.0), il ruolo di Moio è quello di aver collegato a livello scientifico i due aspetti fondamentali di un grande vino: grande agricoltura e grande tecnica in cantina.
Due protagonisti, due facce di una stessa medaglia che in soli vent’anni hanno cambiato il volto della viticoltura regionale campana creando anche vere e proprie scuole di giovani competenti e appassionati.
Ma tutto questo entra poco in questo libro, che avrà sicuramente la fortuna di fare il giro del mondo in tante lingue perché ha al tempo stesso il rigore dello scienziato ricercatore e la capacità del divulgatore. Proprio quello di cui si aveva tanto bisogno in un mondo popolato da troppi sciamani, molti abili mercanti e qualche ideologo pazzo.
Perché, alla fine, a dispetto delle apparenze, uno scienziato è sempre più vicino di uno stregone al mistero della vita.
E dunque al respiro del vino.
Un commento
I commenti sono chiusi.
Caro Luciano non oso entrare nel merito sulla bravura del Prof. ma una domanda voglio fartela: ma quanto resta di quel prodotto chiamato vino dopo le tecniche di cantina di cui il Prof. è’ così bravo? Ma dimmi caro Luciano se una falangina con tutto il rispetto il Prof la commercializza quanto un Pouligny Montraches ? Forse le rimembranze francesi? E fermiamoci qua .