L’ispettore Michelin – Una pizza a Roma


Sergio Parisse

di Fabrizio Scarpato

Se Parisse avesse la mèr, sarebbe une petite Honfleur

I normanni prendono per i fondelli i parigini che regolarmente si spiaggiano come cetacei sulla sabbia di Deauville e poi arrivano bianchi, sfatti e beati a mangiare ostriche e crevettes a Honfleur. Parisse, però, è il terza linea centro dell’Italia, il gigante senza sorriso che ancora una volta ha spianato la Francia nel Sei Nazioni. Bastava guardarlo negli occhi dopo la meta: nessun compiacimento, solo consapevolezza e voglia di affondare i denti nelle carni molli dei Bleus. Poi è entrato Morgan Parra ed è stato chiaro che i lupi avevano trovato altra carne tenera da sbranare: ho guardato la foto di Chabal che avevo estratto dalla tasca e ho cercato di distrarlo con l’ennesimo goccio di calvados, quello nostro, che m’ero portato da casa: finito in un sorso, nel singulto dell’ultimo, inutile assalto francese.

Una pizza a Roma

E’ stato Routtier che ha insistito perché andassi con lui a Roma a vedere la partita. Una specie di ricreazione, dopo quasi quattro mesi confinato nella gendarmerie di Honfleur, che poi sarebbe anche casa mia; ma questa volta il soggiorno era obbligato, proprio lì nella grigia casa con la carta da parati e il parquet sdrucito. Persino la cella numero uno mi sembrava un’evasione, ma devo ammettere che nemmeno la gigantografia di Chabal è riuscita a smuovermi da una sorta di afasia, quantomeno da un ostinato, cupo silenzio. Solo Babette sembrava non farci caso, e quando mi portava qualcosa di buono da bere o da mangiare, parlava e parlava a ruota libera: credo di non avere ascoltato una sola parola, ma la ringraziavo, regalandole un crisantemo. Non meritavo quelle attenzioni, in qualche modo ne ero consapevole, tuttavia non avevo intenzione di scusarmi col mondo. Qualcuno aveva preteso un pentimento: d’istinto volevo resistere, quasi proteggere quella specie d’amore disperato. Forse preferivo nascondere sotto il tappeto la mia debolezza, ma al tempo stesso digrignavo i denti, stupendomi, atterrito, dell’indulgenza che avevo verso me stesso. La somma era un mutismo assorto e carico di orgoglio, quasi un’atarassia compressa, solo leggermente compiaciuta. In attesa del crollo, avevo tagliato il codino e adesso vestivo di nero.

Il lungo tragitto dall’Olimpico fino a Trastevere era stato trasformato in una sorta di Via Crucis del rugby francese, o forse in un rito per esorcizzare l’onta del Cucchiaio di Legno: ogni bar che incontravamo lungo la strada, seduta stante veniva intitolato a un giocatore che amavamo, e a lui si rendeva omaggio con un bicchiere. Blanco, Prat, Villepreux, Rives, Sella, Camberabero, Magne, Ibanez, Berbizier avevano mosso la nostra muta e profonda commozione, stemperata da un goccio di calvados o di cognac. Solo Chabal si era sentito offeso perché, venuto il suo momento, avevamo brindato con una italianissima grappa alla pera: un vero affronto, sufficiente perché ci mandasse sonoramente affanculo. Aveva ragione, in effetti quella grappa era veramente schifosa, se vogliamo anche poco virile, ma non c’era altro per stordire la delusione della sconfitta. Oddio, Routtier qualche idea ce l’aveva e con la sua proverbiale eleganza di punto in bianco disse: “Da uno a dieci, ti faresti di più un’ucraina o una moldava’”. Gli feci cenno che non era il caso, e se ne andò, tirando su di naso e ruttando come un rimorchiatore.

Modugno, Vecchio Frak (dalla collezione privata dell’ispettore Michelin)

Ora mi sporgevo dal parapetto di Ponte Sisto, pioveva e l’acqua del Tevere scorreva impetuosa ancora ben al di sotto del buco che trapassa quel ponte all’altezza del pilone centrale. Sulla superficie passava di tutto: rami, plastica, sacchetti, un cappello. Mi venne in mente una canzone di quel cantante italiano che piaceva a mia madre: la ricordo perché allora mi colpì il fatto che pronunciasse alcune parole in francese, con l’inflessione strana degli italiani, ma anche perché per un certo periodo tentai di suonarla alla chitarra, ma toccare le corde e insieme percuotere la cassa con quel suono caldo e cupo non mi riuscì mai, tanto che lasciai perdere tutto, per sempre. Lo stavo facendo ancora, anche in quel momento: perdere tutto è sempre stata la mia specialità.

Ponte Sisto

S’era fatto buio e il quartiere si animò di passi e voci. Mi tuffai tra la gente per stordirmi, ne seguii per un po’ la corrente, finché in un vicolo trovai una pizzeria, affollata il giusto, quel tanto che bastava per riuscire a confondermi con le pareti: non sapevo niente della pizza, mangiarla non rientrava esattamente tra le prime cose da fare nella vita, per di più era assolutamente e noiosamente italiana. Tutti buoni motivi, in fondo, per entrare a farmi gioiosamente del male.

Mi portarono una pizza brutta e storta, ma buonissima. Era semplice, una Margherita con mozzarella di bufala, ma terribilmente complessa, anche se per nulla complicata. Pensai a Picasso e a quelli che magari di fronte alle Demoiselles d’Avignon mostrano dubbi sul fatto che sapesse disegnare. Per non dire di Mondrian o Fontana: cosa ci vuole, dicono. Perché allora non l’hai fatto tu, coglione? E il pensiero andò spontaneo a Pepè le Moko, l’unico pizzaiuolo di Trouville, in realtà un turco che si spaccia per napoletano. Da anni pensa di ingannare gli eroici clienti intercalando il suo ruvido francese con due sole parole, oscure ai più: jamme ja’, funiculì funiculà. Come per un riflesso condizionato mi guardai intorno con circospezione, quasi per accertarmi che Pepè non avesse inopinatamente lasciato la Normandia, dopodiché continuai a mangiare quella pizza con studiata e veloce lentezza: la squadravo dall’alto, la scandagliavo di lato, assaporavo la fragranza della pasta, la toccavo ripiegando con le mani i triangoli che avevo giustamente ritagliato. Da qualunque parte la guardassi mi sorprendeva, sinaptica e intrigante, mai ferma: come un racconto, o un viaggio. Mi regalai una tarte tatin con un buon calvados, cercando riparo nelle cose conosciute, terrorizzato dalla ventata di inatteso buonumore e forse preoccupato da una sorta di fascinazione ambigua e sfuggente, così canaglia da costringermi all’imbarazzante proposito di andare alla ricerca della mozzarella di bufala, l’indomani, per le strade di Roma, per toccarla, per mangiarla, per capirla.

E alla fine è giunta mezzanotte, si sono spenti i rumori, s’è spenta anche l’insegna dell’ultimo Caffè all’angolo del vicolo: nel cuore un attimo di tranquillità. Miracoli di una pizza. Mi avvio fischiettando, scansando le pozzanghere tra i sanpietrini bagnati: Bonne nuit, bonne nuit, bonne nuit, buona notte, va dicendo ad ogni cosa, a un fanale illuminato, ad un gatto innamorato che randagio se ne va. Innamorato… Prendo a calci un’ignara lattina che rimbalza nel clangore giù giù, fino a Santa Maria in Trastevere.

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