L’Ispettore Michelin / Superbia


Egly-Ouriet Brut Tradition

Egly-Ouriet Brut Tradition

Di Fabrizio Scarpato

Sono venuti in tanti in capo al mondo per vedere lo chef. E vedere non è detto a caso: la sua scomparsa misteriosa aveva suscitato molto clamore, come dicono i giornali, ma non aveva minimamente intaccato il suo credito mediatico, anzi per certi versi la sua notorietà era cresciuta. E ora erano lì per radiografarlo, per vedere se era cambiato. Krippnick Scrackalbott era tornato.

«Venga in tarda mattinata all’Auditorium, riceverà un pass per il backstage. Ci vediamo lì. Kripp». Il biglietto me lo aveva consegnato un autista venuto a prendermi per condurmi fino a Luleå, qualcosa che somiglia a una cittadina sul mare.Quando sono arrivato era già in scena, alto e magnetico. Stranamente indossava solo un maglione a coste dal collo alto, nero, pantaloni in cerata e stivali: ricominciava da capo, dalla sua città, dalla sua casa, vestito da pescatore, come suo padre. Ho pensato che il cashmere fosse un po’ esagerato, e che le professioni di umiltà non richieste solitamente puzzano dalla testa, alla faccia del pescatore.

E in un sol colpo ha mandato a puttane buona parte della sua vita, non saprei dire se per calcolo o convinzione, passando in un banalissimo, ma artigianalissimo tritacarne, tutte le sue intuizioni precedenti, le sue ricerche, persino le idee che aveva cercato di trasformare in piatti spesso arditi, comunque spiazzanti, molto spesso illuminanti. Almeno così dicevano le riviste e gli articoli che avevo letto durante il buio, sfogliando pagine qua e là, tra le pelli di orso.

Ora era finalmente libero, diceva, ma non era chiaro da cosa esattamente si fosse liberato. E nonostante si districasse con sapienza tra ritrovate tradizioni e dimenticati ingredienti, e mescolasse abilmente conoscenza, esperienza, sostanza e pazienza, specie la mia, alla fine appariva chiaro non dico ai sostenitori più osannanti, ma, per quel che conta, sicuramente a me, che la sua libertà coincideva semplicemente col fare quello che cazzo gli pareva, senza render conto a nessuno, rivestendo di un’unta e bisunta patina di falsa umiltà, la superbia che lo nutriva dai capelli fino alla punta di quei cavolo di stivali che nemmeno sapeva portare.

Parte a palla il riff di 21st Century Schizoid Man, e nel frastuono generale mi viene in mente il giorno in cui Mariana mi preparò in cinque minuti quella vellutata di cocco, gamberi e foie gras, nella stanza viola che non aveva più pareti: quella volta lei cucinò per me, magari solo quella volta, ma lo fece per me. Quel bellimbusto che avevo davanti ero certo non avrebbe saputo farlo, né per me, né per chiunque altro. Perché sembrava incapace di amare e forse cucinava solo per se stesso.I King Crimson ora accompagnano con svisate vagamente marziali la vestizione dello chef che si presenta tra il pubblico in toque, giacca e grembiulone immacolati: una veste totemica, cui l’orda indistinta avrebbe avuto modo di rendere omaggio appiccicando qua e là dei post-it colorati, ognuno con una semplice domanda, una qualche pressante curiosità. Come il santo patrono, Scrackalbott si aggirava tra i fedeli con movenze rigide e espressione ieratica, venata da evidente fanculismo. Una volta tornato sul palco, il corpo ricoperto di bigliettini arcobaleno, prese a rispondere:

Post-it

Post-it

«Un oggetto…». Fece finta di pensare: «Un tavolo, grande, sotto il quale io e mia sorella ci rifugiavamo a giocare, mentre nostra madre preparava i pepparkakor a Natale. Ogni tanto rubavamo un po’ di crema, ma era come assistere alla creazione del buono in prima fila».

«Un sapore, un profumo…». Qui sorrise quasi commosso: «Le mani di mia nonna che mi accarezzava, dopo che aveva preparato gli involtini di cavolo, i kåldolmar».

«Cosa mangia a casa, la sera?». Prontissimo: «Una fetta di pane con panna acida e aringhe fermentate del Golfo di Botnia. E’ il modo migliore per ricordare a me stesso quanto sia bello essere sgradevoli». E giù applausi a scena aperta. Disgustoso.

«L’ultima» disse il moderatore con un post-it arancione tra le dita: «Cucinerà ancora il Cuore di Alce Innamorato?». Lo chef tossì e forse era diventato anche pallido. Esitò a lungo, scandagliò con sguardo ansioso la platea, finché emise un flebile: «No». Gli venne in soccorso la musica, e L’Uomo Schizoide del Ventunesimo Secolo lo colse provato, urlandogli addosso con la bocca spalancata chissà quali nefandezze, quali cattivi pensieri. Applausi e corsa allo smörgasbord, allestito nella hall.

«Lei è mai stato innamorato, Gustave?». Certo che lo ero stato, magari poi non avevo saputo amare, che è certamente più difficile. «Beato lei, io ero sicuro di non esserne capace, e a dire il vero questa convinzione mi ha fatto anche parecchio comodo. Una sorta di infantile incapacità di intendere e di volere che mi esonerava da qualunque responsabilità verso gli altri, in particolare verso le donne, che forse proprio per questo non mi sono mai mancate. Nel senso che il più delle volte le muovevo a compassione, in altre le sconcertavo con una specie di carismatica inconsistenza: quanto bastava, in ogni caso, perché mi prestassero immediato e spiccio soccorso. Pensavo, insomma, che non mi sarebbe mai capitato di innamorarmi, finché non ho incontrato Ingrid. Il Cuore di Alce Innamorato lo avevo ideato e cucinato per lei. E’ stato il mio ultimo, inutile piatto».

Aveva un cuore, dunque. Lo guardavo mentre sorseggiava un Egly-Ouriet Brut Tradition, ossidato come i nostri animi, cesti di frutta matura e cucchiaini colmi di mele cotte, eppure ancora sufficientemente acidi, l’animo e il vino, da tenersi in vita, persino con classe ed eleganza. «Questo Champagne ci assomiglia» disse «è stanco, come noi piegato sotto il peso di scelte discutibili». Esitò un attimo e proseguì: « Si sente solo come me, Michelin?». «No, Kripp, non direi. Perché noi non siamo affatto uguali. Lei è un capo, io semplicemente uno nascosto nel branco. Forse lei si sentirà solo, e in qualche modo è condizione del suo ruolo, io al massimo sono un solitario. E’ diverso». Sorrise, con quell’espressione perplessa che sottintendeva ”bah, contento te…”. Poi, puntando leggermente il dito verso di me, disse: «Adesso però è lei Gustave che m’è diventato presuntuoso…» sfoderando il ghigno inquietante del comandante di un sommergibile U-Boot: colpito e affondato. Beh, quasi. Perché a volte è persino piacevole leccarsi certe piccole ferite, così, sopra pensiero: in fondo sai che rimargineranno in fretta. Fu così che per un attimo sentii che di lui mi potevo fidare. E mi rincuorai, mentre nell’oscurità attraversavo la fitta foresta di abeti che mi separava da Gammelstad.

Gammelstad

Gammelstad

Più tardi, a un’imprecisabile ora del buio, lungo la stradina innevata che mi portava a casa, mi ferma una gentile signora. Dice che sono i vicini di casa e che sarebbero felici se volessi unirmi a loro per cena. Ringrazio e ovviamente rifiuto. Poco dopo bussa alla porta una ragazza, tra le mani una pentola fumante: la posa sul tavolo, mi chiede un piatto e versa tre mestoli di tisdagssoppe, la zuppa del martedì, mi spiega, con orzo, latte e patate. Mi porge il piatto con entrambe le mani, come fosse solo per me, proprio per me. «Grazie, come ti chiami?». «Ingrid» rispose. E arrossì.

Martedì

King Crimson, 21st Century Schizoid Man, 1969

Egly-Ouriet, Brut Tradition, Grand Cru