L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – XIII Colpevole
di Fabrizio Scarpato
«Buongiorno ispettore, sono il capitano Passalacqua. E’ tanto che aspetta?».
Anche troppo, avrei risposto, vista la miriade di casini che mi erano accaduti in mezz’ora, ma in realtà era puntualissimo. «Prende qualcosa? Un caffè, una sambuca…?». Sorrise schernendosi, come se stesse parlando con un pazzo alcolizzato: «No, no… grazie, un bicchiere d’acqua minerale gassata con una fetta di limone, se possibile». Poi continuò, senza tanti convenevoli e preamboli, come per togliersi un rospo dalla gola: «Ispettore, le prime indagini sulla morte del signor Achille… beh, siamo qui per un incontro informale, e quindi posso parlare senza giri di parole… insomma sono un casino, ci sono cose che non ci tornano e per questo ho voluto parlarne con lei. Ecco, sembra che l’ora della morte, in un primo momento collocata nella notte tra mercoledi e giovedi scorso, non coincida con l’esito dell’esame autoptico, che porrebbe il decesso molte ore prima, nella serata di mercoledi, quando era buio, ma pur sempre con una presenza di luci e persone che avrebbero dovuto sconsigliare un gesto come quello che ha lo portato alla morte. Ma quel che più conta è che non ci sono tracce di violenza sul collo della vittima compatibili con un volo di diversi metri nel vuoto con la testa infilata in un cappio. Insomma tutto lascia pensare che Achille sia morto prima e non per autoimpiccagione, il che significa che forse, dico forse, potrebbe esser stato ucciso, e solo successivamente calato dal Gigante, per simulare un suicidio. Al che mi fermo, ché ogni ulteriore passo sarebbe forse eccessivo perché privo delle necessarie prove o riscontri».
Rimasi in silenzio, girando lentamente sul tavolo il bicchiere di sambuca, il secondo: cercavo di rimettere in ordine i pensieri che mi sballottavano il cervello come un flipper, alla ricerca di un filo cui attaccarsi, di una logica a cui ricondursi. «Niente altro? C’è qualche altro particolare, qualche dettaglio…». Il capitano mi guardò come si guarda un ingrato rompicoglioni, scartabellò tra le carte e con fare sbrigativo, tanto per farmi contento, disse che erano state trovate tracce di limatura di ferro intorno al collo e sotto le unghie della vittima, e anche un frammento di filo, o cose del genere, tra i capelli ricci. Guardò ancora più attentamente il fogli e confermò: «Sì, ecco, un filamento di… polipropilene, presumibilmente di colore arancione. E’ proprio tutto». All’improvviso, come nei vecchi Giochi Senza Frontiere, il mio filo divenne rosso, il fatidico fil rouge che finalmente ricuciva buona parte degli avvenimenti, descrivendo a grosse linee chi li aveva determinati. Presi un tovagliolo, scrissi un nome e lo passai al capitano. Dopo aver letto deglutì vistosamente: «Adesso sì che gradirei una sambuca…».
«Signora…». Volevo salutare la padrona di casa, lasciando a malincuore quella terrazza circondata dalle agavi e dal mare blu, con vista sulla stazione ferroviaria più bella del mondo, un plastico per trenini lungo cinquanta metri, stretto tra due gallerie, dove i treni, quelli veri, sostano o passano veloci in un attimo, come disegnati sulla roccia e tra le rocce, quasi fosse un gioco. Quanti treni ho perso nella vita? Tanti, quasi quanto quelli su cui avrei anche potuto evitare di salire, se non fosse che erano troppo belli: e li ho presi, ci son salito sopra in corsa, stregato dal gioco, intrigato come un collezionista cieco: anche qui, tra una stazione e l’altra delle Cinque Terre.
«Si può andare a piedi fino a Manarola?». «No, ancora no, mi dispiace. La Via dell’Amore è chiusa, ci sono stati dei crolli e sono in corso i lavori per metterla nuovamente in sicurezza». «Peccato…» e non mi ci volle molto a interpretare quella frase come il riassunto, non richiesto e involontario, della mia vita sentimentale. «Non vorrà mica attaccare lucchetti anche lei?» disse sorridendo. La guardai, forse un po’ di sbieco come si guarda uno che ti ha appena pestato un piede. Forse se ne accorse, perché si ravviò i capelli sulla fronte, con un filo di imbarazzo. Poi continuò, accalorandosi: «Non ho mai capito come e perché un lucchetto possa raccontare un amore. Chiudeteci un cancello, magari, oppure venite qui da me e bevete un bicchiere di vino, insieme, guardandovi negli occhi, senza costringere nessuno. E poi cosa me ne frega a me del vostro amore… tra l’altro lasciato lì ad arrugginire, a sopravvivere a se stesso, come certi ex voto che si trovano nei santuari: stampelle, protesi, sedie a rotelle. E’ brutto, anche esteticamente. Io la notte andavo sulla Via con le tronchesi e ne spaccavo quanti più ne potevo, poi di giorno ne arrivavano altri e io la notte li disintegravo di nuovo. Viva l’amore libero!» e rise, ancora una volta, certo inconsapevole di avermi messo a nudo e steso con un’entrata al plesso solare che nemmeno Chabal ai tempi d’oro… Infatti rimasi un attimo col fiato sospeso, a riavvolgere il nastro, domandandomi chi fosse, da dove fosse venuta, e perché non riuscissi più a toglierle gli occhi di dosso. Lei lo avvertì e si schiarì un attimo la voce, per riportarmi alla realtà. Balbettai: «Alors aurevoir madame…madame?». «Pénélope, je m’appelle Pénélope. Et… ne vous inquietéz pas, il va rouvrir bientôt». «A bientôt, Pénélope» e mi uscì un sussurro disilluso, non perché fossi preoccupato, ma perché tra me e gli altri, ormai, c’era un evidente sfasamento, un diverso modo di considerare e vivere il passare del tempo.
Così, alla fine, rincorrendo il passato, Paride ce l’aveva messo davvero il piede su una mina, e quella gli era saltata sotto al culo. Sono andati a prenderlo in officina alla sera, quando aveva ancora le mani ben sporche di limatura di ferro, la stessa trovata sul collo di Achille, quella che anch’io mi ero ritrovato sul cappotto, quella mattina che venimmo alle mani. Quanto al nastro arancione in polipropilene, ce ne erano due rocchetti in bella mostra, uno già iniziato e l’altro nuovo di pacca, quanto bastava per disseminare lungo i sentieri tutti i ricordi che aveva raccolto. Sembra non abbia proferito parola, anzi abbia mostrato una certa sicumera e tracotanza, come di chi si sente a posto, come se avesse assolto al proprio dovere, facendo in qualche modo giustizia. Ma al di là dell’evidente differenza di vedute e stili di vita, non era possibile che Paride avesse ucciso Achille senza un motivo forte e improvviso, forse il medesimo per cui quel giorno mi tirò un cazzotto a bruciapelo, forse l’unico motivo per cui il ragazzo avrebbe preso un’iniziativa addirittura omicida, lui solitamente così schivo e taciturno, tanto da sembrare senza nerbo. E quel motivo non poteva essere che Elena, la sua donna, come diceva, ma anche la figlia di Achille, col quale certo la ragazza non andava d’accordo, ma che in un momento di difficoltà avrebbe potuto essere l’unico valido appiglio, l’unica speranza di una qualche salvezza per Achille. Di fatto, il suo punto debole.