Limen di Stella di Lemmen: un bianco macerato dalle Cinque Terre


Limen di Stella di Lemmen

Limen di Stella di Lemmen

di Raffaele Mosca

Della macerazione non sono mai stato un fan: nel 70% dei casi dà origine a puzzette assortite e sorsi scomposti, difficili da mandar giù perché il tannino rugoso dell’uva bianca – se mal gestito – rende la beva piuttosto sgradevole. La moda dell’ orange ha incentivato sperimentazioni maldestre: oggi sta perdendo vigore e la speranza è che rimangano solo i vini ambrati veramente meritevoli di attenzione, così come sono sopravvissuti (quasi) solo i bianchi barricati che avevano davvero un senso.

Certo è che esistono dei casi in cui la buccia nobilita il vino: per esempio quello dei vini prodotti nelle zone più estreme delle nostre coste e delle isole. Da Pantelleria al Giglio, passando per Ischia, lo stile ambrato sembra aggiungere ai bianchi isolani un che di buccioso che rafforza il loro carattere naturalmente ruvido e un po’ pungente, elevando l’espressione dell’identità mediterranea all’ennesima potenza.

Le Cinque Terre non sono un’isola, ma è come se lo fossero: per la carenza di spazio coltivabile che ha costretto gli uomini a costruire terrazzamenti; per il rapporto simbiotico tra la vigna e la luce riflessa dal mare; perché sono rimaste culturalmente isolate fino alla costruzione delle prime strade asfaltate più o meno mezzo secolo fa. E proprio come le isole più battute dai turisti, oggi vanno incontro ad un progressivo declino della tradizione agricola. Gli ultimi viticoltori hanno in media più di 70 anni e hanno fatto di tutto affinché i loro figli evitassero di vivere lo stesso calvario quotidiano: quelli che non vanno via, lasciano la vigna in balia di sé stessa per aprire un affittacamere o un ristorantino . “ Il rischio che la viticoltura nelle cinque terre sparisca è concreto” spiega Lucia Bruzzone, titolare di Stella di Lemmen.

L’azienda Stella di Lemmen nasce dall’acquisto di una casa con una vista mozzafiato e dalla necessità di recuperare tutto ciò che c’era intorno; è accessibile solamente attraverso una rotaia che passa tra i terrazzamenti. Consta di 5 ettari coltivati in regime biodinamico: pochissimi all’apparenza, ma sufficienti a renderla la più grande realtà vitivinicola a corpo unico della zona di Riomaggiore; il dislivello tra la parte bassa e quella più alta delle vigne supera, peraltro, i 70 metri. La produzione di uva segue due filoni diversi: circa la metà viene conferita alla cantina sociale; l’altra metà viene utilizzata per produrre più o meno 10.000 bottiglie con marchio proprio.

Le etichette sono quattro e, tra tutte, è proprio il Limen, bianco leggermente macerato da blend classico di Bosco, Albarola e Vermentino, a convincere di più. Non è un orange vero e proprio, ma un vino dorato intenso, frutto di una sosta sulle bucce che dura dai 3 ai 5 giorni in base all’annata. Fermentato spontaneamente, affinato per circa 8 mesi in acciaio e non chiarificato, ha un naso perfettamente espressivo del luogo d’origine: leggermente pungente nel caso della 2022, un po’ rustico se vogliamo; una ventata iodata e di timo disidratato fa da preludio a toni di agrumi essiccati al sole, frutta estiva stra-matura e una punta di miele amaro. Il tannino da macerazione si fa sentire, ma non lo scompone; dà quella sensazione tattile che, unita alla sapidità quasi piccante, ti fa venir voglia di abbinarlo alle carni da cortile, che sono più tipiche di queste zone costiere di molti piatti di pesce. Non eccelle in precisione: forse la 2023 assaggiata in anteprima è appena più composta, ma rimane sempre un po’ ruvida. Come suggerisce qualcuno in questa degustazione al Ceppo, non ha le credenziali del “grande vino”. Eppure riesce ad essere grande per potere immaginifico.

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