L’etichetta Don Bosco e il futuro del vitigno camaiola nel Sannio


di Pasquale Carlo

La storica etichetta della Vitivinicola Anna Bosco

La storica etichetta della Vitivinicola Anna Bosco

«Scusa Pasquà, voglio farti riassaggiare il ‘Don Bosco’ di Pippetto (Filippo Venditti) per farti vedere l’evoluzione da quando l’abbiamo bevuto l’ultima volta, nel giugno scorso». Complice anche la scelta della mitica parmigiana di mamma Maria, non oppongo nemmeno una minima resistenza alla proposta dell’attenta sommelier Antonella Mauriello, in occasione dell’ultima serata in pizzeria dell’anno. Per fortuna, aggiungo.

La parmigiana di Maria Lamberti – Pizzeria La Pineta

Chi ha avuto modo di seguire i due decenni di scrittura su questo blog conosce bene la particolare attenzione che nutro verso il vitigno da cui si produce questo vino. Allora lo indicavamo tutti con il nome ‘Barbera del Sannio’, consapevoli di essere portavoce di un errore non solo dannoso dal punto di vista comunicativo, ma anche pericoloso dal punto di vista commerciale, considerato che proprio in quegli anni iniziavano a serpeggiare tra le vigne del Sannio le preziose testimonianze degli studi di Michele Manzo e Antonella Monaco (2001) che, per primi, evidenziarono che questa varietà coltivata nella Valle Telesina e riconosciuta come ‘Barbera del Sannio’ nulla avesse a che vedere con la varietà originaria del Piemonte.

Studi a cui ben presto si aggiunsero quello di Costantini e altri studiosi e ricercatori (2005), che attestavano come questa varietà sia ben distinta anche dal patrimonio genetico ampelografico campano. Dopo oltre tre lustri, le ulteriori ricerche arrivate grazie al progetto ‘Indigena’ (che ha coinvolto le aziende Anna Bosco, Antica Masseria A’ Canc’llera, Ca’Stelle, Scompiglio, Terre di Leone, Vinicola del Sannio e Vinicola del Titerno, con il supporto tecnico-scientifico dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ – Dipartimento di Agraria, Sezione di Scienze della Vigna e del Vino e la direzione di Nicola Matarazzo) hanno rafforzato l’unicità del vitigno, dando un forte credito anche alla ricerca storica (‘Vigneto Castelvenere – Vite, viti e vini’, 2017) che, nel frattempo, aveva riportato alla luce il nome locale ‘Camaiola’ con cui nelle campagne titernine si indicava questa varietà oltre un secolo fa. Un nome che venne praticamente “scalzato” da quello ‘Barbera’ per una speculativa scelta commerciale, allora possibile a causa della completa assenza di leggi e regolamenti che disciplinassero la produzione del vino.

Questo è il passato. Ora la necessità è di guardare al futuro, con serietà e determinazione, al fine di non commettere errori limitanti le reali potenzialità del vitigno. «La caratteristica della Barbera di Castelvenere, che la segna come tipicità – scriveva Luciano nell’estate del 2007, facendo riferimento proprio all’annata 2006 di Anna Bosco (etichetta ‘Armonico’) – è il filo varietale unico tra i diversi produttori, cioè si tratta di un bicchiere immediatamente riconoscibile. Un rosso estroso e piacevole, caratterizzato nello spettro aromatico e gustativo, su cui si deve fare una riflessione per poter andare avanti e occupare adeguato spazio mediatico e commerciale. Prugna, ciliegia, more, davvero il rosso di Castelvenere si esprime in maniera moderna».
In riferimento al vino provato l’altra sera, evidenzio che il ‘Don Bosco’ 2022 conferma pienamente quanto rimarcato allora da Luciano. Il vitigno da vita a due versioni rosse, una base e una ottenuta da uve che subiscono concentrazione. Versioni di cui Salvatore Venditti (il papà di Filippo) è stato capostipite e faro: era la vendemmia 1974 (mezzo secolo fa) quando si presentava al pubblico con un Vino da tavola ‘Barbera’ e un Vino da Tavola ‘Don Bosco’, andandosi a differenziare in maniera convinta dalla ‘Doc Solopaca’ (1973). Convinta e – se vogliamo – anche polemica, considerato che la Doc non aveva preso minimamente in considerazione questa antica varietà.

L’altra novità, sicuramente più rilevante, è rappresentata dall’ampliamento della compagine produttiva, per cui la “Barbera di Castelvenere” (come la chiamava Luciano) è diventata oggi una varietà verso cui guardano con attenzione numerose cantine sannite, come pure qualche produttore della confinante provincia di Caserta, areale in cui la varietà è stata sempre coltivata, anche se in maniera marginale. In molti casi questa diffusione è legata comunque ad un legame con Castelvenere: all’inizio fu Torre del Pagus, complice un breve periodo di attività dell’enologo Maurizio De Simone che, acquisito consapevolezza delle potenzialità del vitigno negli anni trascorsi a Vigne Sannite, non esitò a proporlo nelle aziende in cui collaborava (tanto che lo ritroviamo anche a Masseria di Sessa, in quel di Sessa Aurunca). Poi, negli ultimissimi anni, al di fuori di questi stretti confini telesini, arrivano nell’ordine: Il Sabba, Iannucci, Denica, Monserrato 1973, Aia dei Colombi, Nifo Sarrapochiello, Masseria Frattasi, Terrae Laboriae, Cantine Foschini, con un elenco che potrebbe continuare a lungo.

Nel frattempo, il percorso per poter vedere scritto il nome ‘Camaiola’ sulle bottiglie della ‘Sannio Dop’ sta per giungere oramai ai passi finali, subendo in questi anni un rallentamento a causa del progetto di completo riordino delle denominazioni che ha visto impegnato il Sannio Consorzio Tutela Vini. Un periodo in cui sembra che l’attenzione mediatica su questa varietà si sia leggermente offuscata. Direi per fortuna, considerato che dal punto di vista dei consumatori l’attesa dell’ingresso sul mercato con un nome più performante (dal punto di vista commerciale e, soprattutto, della narrazione emozionale) non è affatto diminuito.

Per questo, attenzione particolare va prestata ad una comunicazione che dovrà essere in grado di divulgare nel migliore dei modi quanto accaduto in questi ultimi anni. In primis si tratta di saper raccontare l’importanza che il suolo riveste nelle differenziazioni che si scorgono nei calici prodotti nei diversi territori (sarebbe forse stato opportuno pensare già ad un lavoro di zonazione). Tutto questo facendo lezione di quel che è successo per altre varietà, più blasonate. Infatti, se è vero che per il vitigno falanghina (a causa della sua grande adattabilità) riusciamo a comunicare bene le doti di un vino che assume tante sfaccettature a secondo delle aree di produzione, restando sempre un prodotto ben riconoscibile e performante, lo stesso non possiamo dire per l’aglianico, che invece lascia emergere  marcatamente le caratteristiche pedo-climatiche delle aree di produzione, palesando spiccate differenze tra Taburno e area telesina non sempre facili da raccontare ai consumatori. Per ovviare a queste difficoltà è necessario supportare con la valenza degli studi quel che già si avverte nei calici. Sappiano bene che i suoli più freschi e sciolti che ritroviamo nell’area che da Dugenta conduce al Titerno, sventrando la Valle Telesina (è questa l’area di antica produzione, con forte presenza del tufo grigio, frutto dell’esplosione flegrea di 39.000 anni fa) donano vini armonici, fruttati, di grande freschezza, che vanno perfettamente incontro alle nuove tendenze del gusto. Per le nuove aree produttive non abbiamo ancora uno storico su cui basare attente descrittive, motivo per cui l’esigenza di studi diventa non solo necessaria, ma anche immediata.

I suoli di ignimbrite campana (cerchio rosso) habitat ideale del vitigno camaiola

Ancora più importante sarà collocare nella giusta fascia di prezzo questo vino che, come detto, sposa bene le esigenze dei nuovi consumatori, non solo in termini di gusto ma anche in termini esperienziali, per cui gli stessi – come evidenzia anche l’articolo pubblicato recentemente da WineNews con le note di Neil McAndrew, consulente nel settore vinicolo e della campagna di comunicazione dell’Unione Europea ‘More Than Only Food and Drink’ – sono ben disposti anche a spendere qualche euro in più. In sostanza, si tratta di abbracciare convintamente un’operazione che vada a collocare i vini Camaiola in una fascia di prezzo che è quella dei vini premium che, anche in un mercato non brillante (i dati sono riferiti alla prima metà del 2024) con i consumi interni in diminuzione (soprattutto nel canale della Gdo), con il loro incremento hanno ben compensato il calo di quelli più entry level, riuscendo così ad ottimizzare i costi e migliorare i risultati di cassa delle aziende, con conseguenti benefici plasmabili anche sulla catena più debole della catena, quella dei viticoltori.  Si tratta un’operazione possibile per due considerazioni. La prima è legata alle caratteristiche del prodotto, riconoscibili e uniche, che lo rendono un vino non facilmente sostituibile con altri. Il secondo è legato alla quantità della produzione, ancora particolarmente limitata. I vini Camaiola, come ben evidenziato anche dallo studio di posizionamento elaborato nell’ambito di ‘Indigena’, ben si riconoscono in quella fascia di rossi premium, che secondo dati dell’Uiv rappresentano anche il 60% delle esportazioni (parliamo di vini che escono dalla cantina ad un prezzo che va dai 6 ai 9 euro) e che in poco più di dieci anni (2013/2023), in un mercato alle prese con una costante diminuzione dei consumi, hanno fatto registrare una crescita del 200%.

Ancora una volta, dunque, un semplice incontro con il ‘Don Bosco’ della famiglia Venditti ci viene in aiuto per volgere lo sguardo in avanti, nel tentativo di tracciare traiettorie future per un vitigno dalle caratteristiche uniche, dalle radici profonde, capaci di esaltare la tradizione enologica di un territorio e per questo potenzialmente sfruttabile per ottime chance di sviluppo, anche economico.

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