Ho bevuto un buon caffè. Ma davvero?
di Sara Cordara*
Nonostante l’Italia si classifichi al sesto posto in Europa, dopo la Germania, per il consumo di caffè all’anno con 3,413 quintali nel 2012, aleggia un imperterrito paradosso. Partendo dal presupposto che noi italiani non riusciamo a ingranare bene la giornata se non beviamo almeno una tazzina di caffè, il dilemma è che non abbiamo minimamente idea di quale caffè stiamo bevendo.
Al bar sentiamo continuamente termini come ristretto, corto, lungo, americano, decaffeinato ma nulla che ci riconduca alla vera natura e origine del caffè. Mi spiego, all’interno del genere Coffea sono identificate molte specie, anche se commercialmente le più diffuse sono due: Arabica e Robusta.
La Coffea Arabica è la qualità più pregiata e maggiormente coltivata (3/4 della produzione mondiale), i chicchi sono più allungati dei Robusta e, per natura, ha un minor contenuto di caffeina (0,9-1,7%).
Rispetto alla Robusta manifesta note più aromatiche, più dolci, più rotonde, più delicate e un’acidità leggera, l’amaro è assente o lievemente presente. Il Centro America e l’Africa Orientale sono le zone più attive per la coltivazione dei caffè arabica. In Brasile, ad esempio, le piante risiedono in zone pianeggianti in pieno sole. Le varietà brasiliane sono senza dubbio tra quelle che caratterizzano la personalità delle miscele italiane più diffuse. La varietà Robusta invece, ha un carattere deciso, ed è più resistente sia alle variazioni climatiche che all’attacco di parassiti, cresce tra i 200 e i 600 metri sul livello del mare, tra i 24° e i 29° C soprattutto nell’Africa Occidentale ed in Asia. I chicchi sono più piccoli, tondeggianti, con spaccatura dritta e colore giallo-brunastro, senza un sapore particolare e con bassa acidità.
La bevanda che si ottiene è più amara, cremosa, corposa, astringente e più forte, molto meno aromatica dell’Arabica ed ha mediamente un maggiore contenuto di caffeina (1,6-2,8%).
Ma arriviamo al fulcro del problema; accorgendomi del fatto che quasi nessuno conosce la natura del caffè che quotidianamente acquista e sorseggia, ho deciso di recarmi in alcuni supermercati con l’obiettivo di analizzare le principali confezioni di caffè classico, in polvere per moka. Un paio di anni fa Altro Consumo aveva selezionato 38 campioni di caffè in polvere e, sulla base di accurate analisi sensoriali aveva, con l’aiuto di un gruppo di intenditori, decretato i migliori.
La mia curiosità era invece incentrata nel capire la tipologia delle informazioni stampate sulle confezioni e quindi dirette al consumatore. I risultati, purtroppo, non sono troppo soddisfacenti o lo sono stati almeno in parte.
Incominciano con il sottolineare che non tutte le confezioni di caffè analizzate citano la varietà (Arabica o Robusta) e la rispettiva percentuale, cioè se sono pura Arabica o Robusta o se è una miscela delle due.
Tra quelle sottoposte a indagine, solo la Segafredo segnalava la provenienza territoriale del caffè, in questo caso dalla piantagione Nossa Senhora da Guia in Brasile. Questo punto esigerebbe una capitolo ben più lungo perché quando è la grande industria a trasformare in cibo un prodotto della terra, come il caffè per esempio, dovrebbe sempre essere chiarita la provenienza del prodotto stesso, e lo trovo assolutamente indiscutibile.
Altro pollice in sù va alla Lavazza, una delle rare aziende che, oltre alla specie di caffè, indica anche la percentuale di caffeina contenuta ed il tipo di tostatura sulla confezione.
Per chi non è del settore non lo può sapere, ma esistono differenti sistemi di tostatura che influiscono in modo diverso sul risultato finale: esiste la tostatura scura, chiara, veloce o lenta. Gli addetti ai lavori mi spiegavano che se è se troppo chiara e fatta con tempi veloci accentuerà astringenza e acidità, se troppo scura ed effettuata con tempi troppo lenti renderebbe il caffè amaro/bruciato.
Ci sono aziende che omettono, tutte o quasi, le informazioni sopraelencate, però ci forniscono dei consigli pratici per la preparazione di un gustoso caffè: ad esempio che l’acqua nella caffettiera non deve superare la valvola all’interno, che la fiamma non deve essere elevata o che il caffè va sempre mescolato prima di servirlo.
Altre ancora non rivelano l’origine del caffè ma ci svelano l’intensità delle sue proprietà sensoriali, come l’aroma, la dolcezza e perfino la rotondità. Allora, fermiamoci un istante e chiediamoci: ma ci prendono per imbecilli forse? Lascio a voi ogni commento in merito.
Insomma, l’ennesima presa in giro per un fedele consumatore di caffè, quale è l’italiano medio. Dopo un interrogativo dietro l’altro mi sono arresa e ho chiesto delucidazioni a Erminia Nodari, che assieme al marito Tullio Plebani e alla passione per il caffè hanno aperto diversi anni fa in provincia di Bergamo l’Art Caffe Torrefazioni, dove è possibile gustare un caffè eccellente ma soprattutto “trasparente”, con tanto di carta d’identità.
Chiacchierando con Erminia sono venuta a conoscenza di un settore a me finora totalmente o quasi sconosciuto. Scopro ad esempio che non esiste l’obbligo di dichiarare nessuna informazione per quanto riguarda il contenuto di un sacchetto o di una scatola di caffè, in Italia ma così come in numerosi Paesi del mondo. E’ però vietato dichiarare il falso per cui, se su una confezione si dichiara un contenuto preciso riconducibile ad una origine o ad una miscela di cui si espone la composizione, ad un eventuale controllo o analisi questa deve corrispondere al vero. Ciò per quanto riguarda il caffè tostato. Analisi più accurate e legate alle transazioni di caffè verde, vengono invece eseguite al momento di selezione dei campioni per stabilirne o verificarne il valore. All’estero sono le aziende produttrici o/e i distributori che promuovono la trasparenza ma non esiste una legislazione in merito, tutto è per ora affidato alla discrezione di chi trasforma e di chi vende.
Sulle confezioni viene definito solo il luogo di produzione riferito alla tostatura e/o il confezionamento, e qui si ferma la tracciabilità. Del resto, dare oggi delle garanzie, ribadisce Erminia, anche dichiarando il Paese di provenienza come poche aziende fanno, risulta vago e non aiuta a chiarire le idee al consumatore (provate a pensare a quanto sono grandi le regioni anche solo del Brasile, da cui provengono i vari caffè).
Il caffè è il prodotto più commerciato a livello mondiale dopo il petrolio, come quantità di prodotto movimentato e come giro d’affari in termini economici. Per fare un esempio pratico, pensate che per tostare fino a 240 kg sono sufficienti circa 18 minuti, per cui provate ad immaginare quanti chicchi cotti e crudi ci siano in circolazione, sostiene sempre la nostra esperta Erminia. E’ quindi fondamentale promuovere una sana e chiara cultura del caffè ma è anche necessaria una comune politica fra torrefattori e coltivatori, solo così si potrà giungere alla definizione della tracciabilità completa. Una delle Associazioni Mondiali che raccoglie importatori, coltivatori, torrefattori e baristi e con l’intenzione di percorrere la strada della trasparenza, sostenendo la tracciabilità, è la SCAE (Specialty Coffee Association Europe), la più accreditata a livello globale.
Io, come tanti, continuerò a bere il mio caffè, sperando vivamente che qualcosa di leggi internazionali si smuova, per una maggiore chiarezza, trasparenza e collaborazione nei confronti del consumatore e di tutti coloro che, come Erminia e suo marito, ci vivono e ci lavorano quotidianamente con il caffè, mettendoci tanta passione e dedizione.
*Nutrizionista – specialista in scienza dell’alimentazione
Un commento
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Caffe Borbone, una sicurezza!