L’Asprinio di Aversa e gli “uomini ragno”
di Antonella D’Avanzo
Nelle campagne dell’agro aversano, quella che un tempo era la Maremma Liternina, un ambiente umido e selvaggio lungo le rive del fiume Literno, una terra promessa, felice, che ospita gente dalle grandi tradizioni, densa di memoria, luogo in cui da ogni punto si osserva la storia e dove furono i Borboni ad intuire le eccezionali peculiarità di un fresco “elisir divino”, ci si può imbattere in qualcosa di mai visto: viti maritate ai pioppi alte 15 metri e lunghi tralci che disegnano un pentagramma le cui note sono rappresentate da grappoli dorati baciati leggermente dal sole: le viti “maritate” dell’Asprinio di Aversa chiamate anche Alberate Aversane, roba da giganti!
Alberate, perché i tutori, quelli che normalmente nelle viti, nelle varie forme di allevamento, sono i pali di sostegno, in questo caso sono alberi, alti pioppi. Tra un albero e l’altro vengono tesi dei cavi di sostegno intorno ai quali si inerpicano e si attorcigliano i tralci di Asprinio, un vitigno rigorosamente autoctono, da cui si ricava un eccellente vino, un bianco così assolutamente secco, acidulo ed uno spumante brillante, vivace, elegante di particolare pregio.
Percorriamo la storia di questo Asprinio con Carlo Numeroso, vitivinicoltore, che con passione e tradizione insieme alla sua famiglia rappresenta il custode di questa memoria ed è uno dei promotori del recupero della coltura di queste alberate; visitando la cantina, realizzata su una grotta di tufo, ambiente in cui tutto riposa e fermenta, dove ha imparato a conoscere, a vivere e infine a selezionare il vino migliore, ci parla del suo amore per questo Asprinio figlio della sua terra.
L’Asprinio, una specie di vitis silvestris, antichissima, introdotta fin dall’epoca etrusca nelle pianure intorno ad Aversa, probabilmente destinata soprattutto alla produzione di aceto, fu anche apprezzata in epoche successive fino a pochi decenni or sono per la produzione di certi vini frizzanti, asprigni, dissetanti. Le origini sono lontane, smarrite e ritrovate, in buona parte confuse nelle leggende: c’è chi gli dà origini etrusche, chi lo vede arrivare dalla Grecia antica, chi lo vuole al seguito del Re di Francia Luigi XII, sbarcato in Campania nel 1500 e ripartitone definitivamente nel 1511.
Oggi questi vitigni, sono certo meno frequenti e solo pochi produttori mantengono in vita questa forma particolare ed originale di coltivazione, considerata un bene ambientale e parte del paesaggio rurale che si va perdendo ed è certamente da salvaguardare. Infatti le viti maritate che salgono fino a 14-15 metri costituiscono un elemento di fascino paesaggistico e storico, ma impongono un impegno notevole per il loro mantenimento e diventa sempre più oneroso coltivarle in questa antica forma.
Il momento della vendemmia era e resta una festa, uno spettacolo: arrivano uomini, dei perfetti equilibristi, definiti “uomini ragno” portando ognuno, la propria scala personale, stretta e lunga, alta una quindicina di metri e appuntita in alto; personale perché ognuna ha i pioli posti all’altezza adatta alla presa della gamba del vignaiolo. In sostanza ogni piolo ha un incavo centrale in cui il vignaiolo incastra il ginocchio per fare maggiore presa, considerando che deve avere entrambe le mani libere. L’uva raccolta viene messa in un cesto, chiamato “fascina”, che finisce a punta, ed ha quasi la larghezza della scala, in modo che quando lo si cala verso terra le due stanghe laterali della scala fanno da binario. Una volta a terra, la coda appuntita del cesto si conficca nel terreno e rimane stabile, non si ribalta; chi raccoglie l’uva lo manovra con una fune robusta e nel calarlo si avvolge le mani con foglie di vite in modo da non subire abrasioni con lo scorrimento della corda; e c’è chi a terra svuota il cesto nelle cassette di raccolta e rispedisce nuovamente su il contenitore manovrando una corda più sottile, visto che è più leggero. In questa alta forma di allevamento i grappoli arrivano a maturazione mantenendo una colorazione giallo-verdognola dorata proprio per la grande distanza che intercorre fra il grappolo ed il suolo che con il calore degli infrarossi emessi, matura parzialmente l’uva; è per questo che il grappolo a maturazione mantiene il tipico colore e conserva un alto grado di acidità che caratterizza poi la freschezza e l’asprezza del vino.
L’Asprinio, attualmente, viene coltivato anche su vigneti bassi sylvoz, sistema di potatura lunga a cordone orizzontale permanente, intorno ai 2-3 metri di altezza per motivi sicuramente di economicità della coltivazione, ma che consentono la conservazione della tipicità del prodotto e con la vinificazione di conservare le particolari caratteristiche organolettiche di questo vino.
L’Asprinio bianco di Aversa e lo spumante hanno ottenuto il riconoscimento della denominazione di origine controllata Doc, dove è previsto che le uve per la produzione di questi vini provengano dai territori di diciannove comuni casertani e di tre comuni napoletani. Il vino, stando al disciplinare della Doc, è prodotto con almeno l’85% di Asprinio e quindi con il massimo del 15% di altre uve locali a bacca bianca È tradizionale l’abbinamento con la mozzarella di bufala campana. Lo spumante Doc, è fatto con il 100% di Asprinio, delicato, con una spuma persistente, presenta un odore fine, unico, fragrante.
Azienda vitivinicola “I Borboni” S.r.l.
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81030 Lusciano (Ce)
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Foto di Antonella D’Avanzo