Luigi Moio: l’Aglianico e la ricerca enologica
L’AGLIANICO E LA RICERCA ENOLOGICA
Luigi Moio
Dipartimento di Agraria
Sezione di Scienza della Vigna e del Vino
Università degli Studi di Napoli Federico II
Alla fine del 1994, al rientro in Italia presso la mia sede universitaria di origine, dopo diversi anni trascorsi in Borgogna lavorando presso il laboratorio degli aromi dell’Institut National de la Recherche Agronomique, il mio obiettivo era di suggerire argomenti di ricerca enologica che avessero ricadute territoriali. Era impensabile proporre studi sui vitigni differenti dai nostri storici italiani. Sarebbe stato inutile, non originale e, soprattutto, non in linea con i programmi di valorizzazione delle produzioni tipiche. Tra l’altro, sotto il profilo scientifico era, ed è tutt’ora, talmente enorme il divario tra le conoscenze relative ai vitigni Pinot noir, Cabernet sauvignon, Merlot, Cabernet franc, Shiraz, Grenache, Chardonnay, Sauvignon Blanc, Riesling, Gewurztraminer, ed i nostri vitigni storici che sarebbe stato ingiustificato riproporre studi su argomenti già abbastanza noti e che comunque vedono impegnati la maggior parte dei ricercatori di viticoltura ed enologia del mondo.
Era invece giusto supporre che una delle cause della differenza di stile esistente tra i vini prodotti con le uve storiche d’oltralpe e i nostri vini, fosse proprio la carenza di conoscenze scientifiche sulla composizione chimica delle uve e sulla tecnica di vinificazione più adatta a ciascuna di essa, ossia su quello che, in questi anni, mi sono ritrovato spesso a sintetizzare come “enologia varietale” ed oggi, alla luce di tematiche di grande attualità come sostenibilità ambientale, approccio sempre più biologico, contenimento delle dosi di impiego dell’anidride solforosa, ecc., cerco di razionalizzare nel concetto di “enologia di precisione”. Fu così che a partire dal 1996, furono avviate diverse ricerche enologiche sulle uve autoctone campane, presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Sull’Aglianico, che naturalmente tra quelli a bacca rossa è il più importante, sono stati affrontati diversi aspetti della chimica dell’uva e del vino, e della tecnologia enologica. L’Aglianico, è uno dei vitigni d’importanza strategica per il settore vitivinicolo del Sud Italia, infatti rappresenta la varietà con maggiore diffusione in termini di superficie totale e costituisce il perno di numerose denominazioni di origine. La storicità del vitigno e l’originalità dell’espressione sensoriale dei vini da essi ottenuti, rappresentano un elemento di forza importante in uno scenario di mercato in cui sempre più consumatori sono fortemente interessati alla diversificazione delle esperienze sensoriali. L’Aglianico, probabilmente originario della Grecia, da cui l’antico nome Ellenico, è stato introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C., ed ha trovato nelle fredde zone dell’Appennino meridionale, in particolar modo in Campania e in Basilicata, il suo habitat ideale. In Campania, la superficie piantata con Aglianico è concentrata, essenzialmente, nelle province di Avellino e Benevento, mentre in Basilicata è presente soprattutto nell’areale del Vulture. E’ un vitigno poco vigoroso, caratterizzato da moderati fenomeni di acinellatura del grappolo, da germogliamento e fioritura precoci, da invaiatura e maturazione tardive. Sotto il profilo fitosanitario, resiste bene all’oidio, ma è sensibile alla peronospora e ai marciumi, soprattutto a causa dell’epoca, molto tardiva, della raccolta. La cultivar Aglianico comprende tre biotipi, Taurasi, Taburno e Vulture (Fig.1), caratterizzati da differenti espressioni fenotipiche. In generale, i biotipi Taurasi e Taburno presentano un maggior peso medio dell’acino rispetto al biotipo Vulture, caratterizzato, invece, da un superiore peso percentuale dei vinaccioli. Spesso, negli areali di origine, la composizione dell’uva Aglianico è tale da determinare uno sbilanciamento dell’equilibrio gustativo verso la componente acida, per cui la sostenuta acidità titolabile tende a contenere il pH, determinando una maggiore reattività delle forme polifenoliche monomere con una conseguente amplificazione del carattere astringente.
In questi anni, allo scopo di comprendere i meccanismi alla base dell’astringenza del vino Aglianico, sono stati condotti diversi studi sulle interazioni che si stabiliscono tra i tannini delle bucce e dei vinaccioli e le proteine salivari. I tannini dei vinaccioli dell’Aglianico, rispetto a quelli delle bucce, sono risultati più reattivi nei confronti delle proteine salivari (Gambuti et al., 2006, 2009). Tale reattività li rende responsabili della percezione dell’astringenza, a causa della formazione di complessi insolubili proteine-tannini che, riducendo il potere lubrificante della saliva, determinano la non piacevole sensazione di secchezza e rugosità del cavo orale. La differenza tra la percezione sensoriale dei tannini dei vinaccioli e della buccia dell’Aglianico è stata studiata in un nostro recente lavoro (Rinaldi et al., 2012), nel quale è stato dimostrato che i tannini dei vinaccioli rispetto a quelli delle bucce sono caratterizzati da un’elevata percentuale di galloilazione, un grado di polimerizzazione medio basso e dall’assenza di epigallo-catechina nelle proantocianidine. In pratica, la buccia di acini di Aglianico perfettamente maturi è più ricca in antociani ed in tannini di natura complessa, mentre i vinaccioli sono risultati più poveri di tannini polimerizzati e maggiormente provvisti di tannini “aggressivi”. Nello stesso lavoro, sono state evidenziate anche differenze nella struttura delle proantocianidine dell’uva Aglianico rispetto a Merlot e Cabernet Sauvignon. Tali differenze sono state messe in evidenza mediante analisi elettroforetica (SDS-PAGE) delle proteine salivari umane (HS) prima e dopo il contatto con estratti di vinaccioli di Aglianico, Merlot e Cabernet Sauvignon (Fig.2). Le bande elettroforetiche, meno intense nel caso dell’Aglianico, indicano una maggiore astringenza dei tannini dei vinaccioli di quest’uva, rispetto a quelli delle uve Merlot e Cabernet sauvignon. Dunque, nell’uva Aglianico la gestione dei componenti polifenolici, durante la maturazione dell’uva e durante la vinificazione, è un punto critico di fondamentale importanza del processo di produzione, soprattutto se si desidera ottenere vini ben bilanciati sotto il profilo gustativo e di eccellente piacevolezza.
Per quanto concerne l’aroma, il vino ottenuto dall’uva Aglianico, pur non avendo caratteristiche varietali specifiche e universalmente condivise, presenta una precisa riconoscibilità, per lo meno da parte di degustatori esperti e che hanno una buona familiarità con il vitigno. Infatti, pur nell’ambito della variabilità dovuta ad annata, biotipo, tecniche agronomiche, pedoclima e vinificazione, è stato possibile individuare i seguenti descrittori d’odore: ciliegia, mora, marmellata di frutti di bosco, ribes, vaniglia, pepe nero, chiodi di garofano e cuoio. Inoltre, in un recente studio (Lisanti et al., 2011), sono state descritte le caratteristiche sensoriali dei tre biotipi di Aglianico, coltivati su tre suoli di natura diversa (vulcanico, calcareo e non calcareo). Il biotipo Taurasi, coltivato su suolo calcareo, è maggiormente caratterizzato da note speziate e floreali, il biotipo Vulture, coltivato su suolo vulcanico, è risultato particolarmente dominato da odori di frutti rossi, il biotipo Taburno, infine, ha mostrato un maggior equilibrio tra le diverse note odorose, risultate meno intense e meno influenzate dal tipo di suolo. Dal punto di vista molecolare, la frazione volatile dell’uva e del vino Aglianico è costituita da numerosi componenti, sia in forma libera che glicosilata, anche se non è stato possibile identificare molecole odorose specifiche della cultivar, indicando che l’identità olfattiva dell’Aglianico è la risultante di un complesso equilibrio tra numerosi componenti odorosi. Nonostante l’assenza di specifici marcatori molecolari, mediante elaborazione statistica dei dati quantitativi delle molecole odorosamente attive identificate nel vino Aglianico, è stato possibile differenziarlo agevolmente dai vini Merlot e Cabernet Sauvignon (Fig.3) (Genovese et al., 2005a, 2005b). Le molecole, butanoato di etile, etil-2-metilbutanoato, etil-3-metilbutanoato ed etil-2-metilpropanoato sono apparse coinvolte negli odori di frutti a bacca rossa. Tali esteri, infatti, sono stati frequentemente indicati come responsabili delle note di frutti rossi nei vini rossi per un effetto additivo tra loro (Escudero et al., 2007; Pineau et al., 2009). Il β-damascenone, un’altra molecola odorosa, significativa nell’Aglianico, potrebbe fungere da “esaltatore dell’aroma di frutti rossi”, in accordo con quanto indicato da Pineau et al. (2007). Infine, i componenti odorosi, b-ionone e linalolo potrebbero essere implicati nelle note floreali, maggiormente percepibili nel vino Aglianico dell’areale del Taurasi.
In effetti, lo studio dell’aroma del vino Aglianico, come quello di altri importanti vitigni a bacca nera italiani (Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo, ecc.) è molto complesso. La loro identità olfattiva non è ascrivibile a una o a un gruppo di molecole, ma è il risultato di un complesso equilibrio tra diverse centinaia di molecole odorose. Allo scopo di semplificare, immaginando uno spazio sensoriale definito dai vini rossi con forte carattere varietale (Pinot noir,
per le nette note frutti rossi, Cabernet sauvignon,
per gli odori vegetali di peperone verde ed il Merlot per i suoi odori speziati di pepe e di cuoio), è possibile collocare l’Aglianico lungo l’asse olfattivo fruttato-speziato (Fig.4). Tale posizione, tuttavia, non è stabile in quanto il delicato equilibrio tra le numerose molecole odorose può essere facilmente modificato da variabili pedoclimatiche, agronomiche e tecnologiche.
In conclusione, l’Aglianico, come tanti altri vitigni storici del nostro paese, è un vitigno dalle straordinarie potenzialità, tuttavia senza una conoscenza approfondita dell’uva a livello molecolare è molto difficile individuare la combinazione viticolo-enologica ottimale per una completa espressione del suo formidabile potenziale qualitativo. Come ho già avuto modo di ricordare, alcuni aspetti tecnologici che vanno dalla programmazione del potenziale enologico alla sua trasformazione in vino sono stati, in questi ultimi anni, approfonditi in numerosi studi, raccolti in un libro dal titolo “Colori, odori ed enologia dell’Aglianico” (Moio, 2004). Le principali indicazioni emerse, utili al miglioramento dei punti critici del processo di produzione del vino Aglianico, è possibile riassumerle nei seguenti punti: a) il diradamento dei grappoli determina un aumento del contenuto in zuccheri nell’uva, una diminuzione dei polifenoli in forma libera, un aumento di quelli polimerizzati e dell’intensità colorante, ed una riduzione dell’acidità titolabile, degli acidi tartarico e malico con un leggero aumento del pH; b) la vinificazione di uva Aglianico a maturazione leggermente avanzata consente di migliorare l’equilibrio gustativo del vino e di attenuare il carattere astringente; c) vinificazioni sperimentali con l’eliminazione del 30% dei vinaccioli hanno determinato una riduzione del contenuto di tannini del 13%, contribuendo a ridurre l’astringenza dei vini, tuttavia, ciò ha comportato una minore stabilità del colore, probabilmente a causa di una minore formazione di co-pigmenti stabili tannini-antociani; d) macerazioni lunghe (21-27 gg), a bassa temperatura (25-26°C), e corte (2-3gg), con temperature iniziali elevate (36-38°C) e svinatura in corrispondenza del massimo accumulo di antociani, sono risultate varianti tecnologiche complementari ed utili ad una gestione programmata del potenziale polifenolico dell’Aglianico; e)
in funzione della composizione dell’uva e del tipo di vinificazione, un’influenza estremamente significativa è esercitata dalla periodicità e dall’intensità delle operazioni di omogeneizzazione del mosto-vino (rimontaggi, follature, risvuotaggi); f) la barrique si è rivelata uno strumento tecnologico importante per perseguire obiettivi qualitativi elevati. Essa fornisce un contributo fondamentale nella stabilizzazione del colore, nell’amplificare la complessità aromatica del vino e nel catalizzare i processi di combinazione tra vari elementi che condurranno ad una maggiore morbidezza del vino. Tuttavia, l’uso del legno è difficile e prevede un progetto che, ancora una volta, parte dalla vigna. E’ quest’ultima il punto critico cruciale per l’ottenimento di un Aglianico di grande qualità, ossia un vino caratterizzato da un elevatissimo potenziale aromatico varietale e privo, nel modo più assoluto, di anomalie sensoriali. Per i grandi vitigni storici italiani, la qualità del potenziale enologico è essenziale per l’ottenimento di vini di elevata qualità. L’uva e la vinificazione devono essere perfette e l’enologo, nell’assistere l’intero processo, deve ottenere il massimo della purezza olfattiva evitando, nel modo più assoluto, deviazioni sensoriali che, invece, nei vini ottenuti da uve con forte aroma varietale è, in minima parte, possibile tollerare. Quest’aspetto, a mio avviso, è di fondamentale importanza, altrimenti si rischia di connotare i difetti aromatici, quando ci sono, come caratteri di tipicità.
In definitiva, nell’Aglianico è possibile far emergere con precisione la sua identità sensoriale nonostante sia frutto di un equilibrio molto delicato, difficile da trovare e da mantenere. Tale identità, se correttamente espressa, può rivelarsi una chiave vincente per accrescere al massimo la competitività di questo straordinario vitigno italiano nello scenario enologico internazionale.
Bibliografia
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Articolo di Luigi Moio tratto dalla rivista l’Enologo (n. 1/2 gennaio/febbraio 2014).
4 Commenti
I commenti sono chiusi.
Sempre grazie al prof. Ed al suo ineccepibile gruppo di lavoro!
Contributo interessantissimo, che eleva il dibattito nel mondo del vino italiano, non solo in rete, con un’analisi condivisibile anche per altri vitigni storici della penisola.
Il vino del Prof. è buono ma è troppo francesizzato. Non ha nulla di campano.
Ho la sensazione che le sei conclusioni finali (da a) a f) ) riportate da Moio siano datate. Non a caso, nonostante si parli di studi condotti in “questi ultimi anni”, la pubblicazione che li raccoglie risale a 10 anni fa…
C’è una grande attenzione al colore e all’estratto, che oggi per fortuna è molto meno totalizzante rispetto a 10 anni fa. All’opposto, è evidente l’assenza di preoccupazione per il grado alcolico che nel frattempo è cresciuto: ai punti a) e b) (leggera surmaturazione!) si raccomandano misure che aumentano simultaneamente il grado alcolico e il PH (= riduzione dell’acidità), esattamente il contrario di quello che sarebbe auspicabile in molte annate.
Anche il panegirico finale nei confronti della barrique appare datato (oltre a richiamare involontariamente la famosa orazione “Cicero pro domo sua”). E’ inoltre singolare che non si parli più in generale di legni di piccola dimensione, a meno di aver dimostrato che tra i 225 litri di una barrique standard e i 350-500 di un tonneau ci sia un’enorme differenza di risultati.