La vera storia del Pandoro, dal Nadalin a Melegatti
di Alfonso Sarno
Qual è la vera storia del pandoro? Il re della tavola è il pane con tutti gli altri alimenti – pasta, minestra, carne, insalata – nel ruolo di umili ancelle. Per antonomasia l’alimento più buono, dà la vita, tanto da essere usato quale sinonimo per definire un uomo disponibile e generoso; sacro non soltanto nella religione cattolica ma anche in quelle pagane come provano alcune statuette rituali raffiguranti delle donne nell’atto di macinare il grano o di prepare l’impasto rinvenute in santuari pagani. In lui sono racchiusi tutti e quattro gli elementi semplici: la terra da cui nasce il grano, l’acqua usata per impastare la farina, l’aria che fa agire il lievito e rigonfiare la pasta, il fuoco per la cottura.
Questo il motivo per cui uomini e donne, fin dall’antichità non soltanto lo hanno voluto come alimento centrale, sempre presente sulle tavole ma lo hanno declinato nelle versioni più diverse che culminano in quelle dolci da preparare, regalare, mangiare nelle grandi occasioni. Il “pane delle feste”: all’inizio basico, estremamente semplice e, poi con il passare del tempo sempre più elaborato ed arricchito non soltanto con il miele ma con lo zucchero impostosi a partire dall’Ottocento allorchè sorsero i primi zuccherifici che lo estrevano dalle barbabietole, con spezie e con canditi e dalle forme più varie.
Ecco nascere il pandolce, il panon della Valtellina, il pan rozzo o parrozzo abruzzese, i pani pepati, il meneghino panettone ed il veronese “pan d’oro”. Gli ultimi due sono oramai da tempo assunti a dolci tipici del Natale, di rigore, presenti sulle tavole del dì di festa. Al centro di una di quelle contese che piacciono tanto agli italiani, coinvolti in accese discussioni su quale dei due sia il migliore, chi sia Bartali e chi Coppi. Salomonicamente, si può affermare che la gara è quasi paritaria, con numeri che premiano entrambi e che tutto dipende dai gusti visto c’è chi ama il “pan di tono” caratterizzato dalla presenza dell’uva passa, augurio di ricchezza e fortuna.
Chi il veronese “pan de oro” che, con il passare del tempo, ha sostituito (o si è aggiunto) sulle natalizie tavole venete il nadalin, inventato nel Duecento per festeggiare il primo Natale sotto il governo di Mastino della Scala che nel 1262 trasformò la città da Comune in Signoria.
Dolce che possiamo considerare come l’antenato del pandoro nato nell’Ottocento: dopo essere stato, per diverso tempo, un po’ trascurato e considerato quale prodotto di nicchia, oggi sta ritornando sulle tavole venete a fianco dell’ormai imperante pandoro. Ugualmente morbido ma meno burroso di quest’ultimo ed, ancora, molto più basso e senza una forma precisa nel 2012 ha ottenuto la certificazione De.C.O. Particolarmente amato dai tradizionalisti che almeno nel giorno di Natale vogliono riandare alle origini, è – in sintesi – un lievitato semplice e soffice, non ha bisogno dei 3 impasti propri del pandoro ed è arricchito da una bianca glassatura . La sua caratteristica? La forma di stella a cinque lati, rigonfia al centro che vuole ricordare quella della Natività o, secondo altri, la magnificente gloria dei della Scala, signori della città.
Ecco, in breve, la storia dell’antesignano del pandoro che è nato dalla creatività dolciaria di Domenico Menegatti, fondatore dell’omonima industria in quel di Verona, che il 14 ottobre del 1894 depositò all’Ufficio dei brevetti ottenendo dopo poco tempo “l’attestato di privativa industriale” la ricetta di un dolce morbido grazie alla lievitazione completamente naturale, molto digeribile per la lunga maturazione e l’utilizzo di materie prime di indiscussa qualità: farina, zucchero, uova, burro, burro di cacao, lievito. E caratterizzato dalla forma di stella ad otto punte, frutto della rivisitazione del pittore impressionista Angelo Dall’Oca Bianca. Cosparso da una abbondante spolveratura di zucchero a velo da – attenzione – utilizzare volta per volta affinchè non perda le sue pecularietà. Per la verità – la storia della pasticceria è così intrigata/intrigrante che avrebbe bisogno di una task force composta da Hercule Poirot, Miss Marple e Nero Wolfe per poterne venire a capo – sembra che anticamente qualcosa di similare già esistesse.
Plinio il Vecchio, infatti, nel primo secolo d. C. cita un pane di fiori di farina, burro ed olio preparato da un cuoco di nome Vergilius Stephanus Senex. Riconosciuto come Pat-Prodotto agrialimetare tradizionale il pandoro va conservato in luogo fresco ed asciutto, lontano da fonti di calore, ad una temperatura tra i 25° ed i 30° e, come capita sempre in cucina, è oggetto, come il panettone, di rivisitazioni che vanno dalla farcitura con crema pasticciera alla glassatura con cioccolato. Un consiglio: è preferibile riscardarlo prima di mangiarlo in modo che sia più morbido e, per gli innovatori, provarlo anche nella versione “sfogliata” cioè con il burro inserito non direttamente nell’impasto insieme con gli altri ingredienti ma fatto assorbire al momento della sfogliatura, cioè quando si creano le pieghe all’impasto come si fa per la pasta sfoglia.
La vera storia del pandoro